La verità è che portare fuori il pattume è un compito che si evita come la peste. Perché è faticoso. È noioso. Lasciamo che a farlo siano gli altri e, se mai si lamentassero, diremmo loro che - oh, mamma mia, che sarà mai! - non è poi un impegno così gravoso.
È un po' come quando uno si impegna a buttare via la merda che ha dentro, dopotutto. Tira fuori le schifezze una dopo l'altra, ci mette le etichette giuste, impara a conoscerle dalla puzza, dal peso, dalla consistenza scivolosa che lasciano sull'anima, come macchie oleose che non se ne vanno da quel paio di pantaloni. Poi infila il tutto nei sacchi, si sobbarca l'onere di trasportarli sul marciapiede opposto, la schiena curva sotto il peso dei fantasmi che soffocano la sua vita da anni.
E poi, così, lungo il tragitto sbuca fuori quel vicino che non vedeva da mesi, lui e le sue odiosissime infradito hawaiane. Lui, che lo guarda sudare e sorride, beffardo. E gli dice che non ne vale la pena, che l'esistenza può essere molto più facile di così, che basta gettare il pattume fuori dalla finestra, senza fare tanta fatica. Che la montagna di merda non crescerà mai a tal punto da raggiungere il balcone, no?
E d'improvviso quel qualcuno si rende conto che non sono il lavoro su se stesso, l'energia spesa copiosamente, la spossatezza, l'ansia di non riuscire, no: non è per quello che si sente un idiota. Si sente idiota perché è l'unico a comprendere il motivo per cui lo fa.
L'unico, sì, nonostante si senta profondamente uno di quei sacchi di pattume da abbandonare sul bordo della carreggiata, senza curarsene troppo.
Nessun commento:
Posta un commento