Capisci di avere qualcosa di speciale in un luogo quando smetti di "andarci" semplicemente, e inizi invece a "tornarci".
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30 novembre 2014
21 novembre 2014
Etimologia.
Era dalle medie - avendo poi frequentato un Istituto Tecnico Industriale - che qualcuno non mi faceva riflettere seriamente sull'etimologia. Solitamente in mezzo a citazioni latine e greche mi sento più spaesata di un riccio sulla Paullese, però ammetto che la cosa ha un suo fascino e un suo perchè. Questo vale sempre, soprattutto quando una persona generalizza la curiosità per cose che riguardano tutto all'infuori del lavoro. Ovvio.
Stabilità. Ho pensato a questo. Ho pensato che chiunque mi chiedesse la cosa che bramo di più, quella sarebbe la stabilità. L'abilità di stare, etimologicamente parlando. Il che - riferito a me - fa un po' ridere.
Io sono quella che agisce, che REagisce, che si alza e va avanti, che si muove dalle stasi, che piuttosto di fermarsi un attimo si strangolerebbe con i lacci delle sue consumatissime All Star tarocche.
Stabilità, abilità di stare. Mi rendo conto che solo ultimamente mi sto abituando a farlo, e manco è venuto da me, l'input. Coerente, al mio solito.
Stabile. Abile a stare, non ad andare. Andare dove, poi? Altrove, credo. In qualunque posto che non sia lo stesso di questo momento. In un pensiero che non sia quello formulato e sedimentato e al quale ci si sia abituati. Ah: in quest'ultimo caso, soprattutto, sono sempre stata la regina delle fughe. Escapologia pura.
Ma, lo devo dire: la stabilità non sembra fare così schifo. Soprattutto quando deriva dalle cose giuste. È solo una novità, e io devo oltrepassare la paura che non mi consente di abituarmici (occorrerebbe usare il plurale, qui.."e dobbiamo oltrepassare la paura che non ci consente di abituarcici". Oddio. Si dice abituarcici? Ho dannatamente paura di no, ma oltrepasserò anche questa).
Mica una ha bisogno di essere Houdini, dico.
Solo un po' più stabile. Mentalmente e non.
Stabilità. Ho pensato a questo. Ho pensato che chiunque mi chiedesse la cosa che bramo di più, quella sarebbe la stabilità. L'abilità di stare, etimologicamente parlando. Il che - riferito a me - fa un po' ridere.
Io sono quella che agisce, che REagisce, che si alza e va avanti, che si muove dalle stasi, che piuttosto di fermarsi un attimo si strangolerebbe con i lacci delle sue consumatissime All Star tarocche.
Stabilità, abilità di stare. Mi rendo conto che solo ultimamente mi sto abituando a farlo, e manco è venuto da me, l'input. Coerente, al mio solito.
Stabile. Abile a stare, non ad andare. Andare dove, poi? Altrove, credo. In qualunque posto che non sia lo stesso di questo momento. In un pensiero che non sia quello formulato e sedimentato e al quale ci si sia abituati. Ah: in quest'ultimo caso, soprattutto, sono sempre stata la regina delle fughe. Escapologia pura.
..quanto era inquietante, l'amico Houdini? |
Mica una ha bisogno di essere Houdini, dico.
Solo un po' più stabile. Mentalmente e non.
16 novembre 2014
Porto di mare: fermata Porto di mare.
Da quando ho abitato per un anno vicino alla fermata M3 "Lodi T.i.B.B" di Milano, ho scoperto che nomi delle stazioni della Metro mi affascinano.
Sarà iniziato tutto proprio perchè quel T.i.B.B. non sapevo - e non so ancora oggi - cosa volesse dire, ma indipendentemente da quello, l'idea che qualcuno abbia intitolato le tappe di una lunga marcia nella città mi suggerisce qualcosa di solenne e al tempo stesso genialmente fresco (non so se si capisca davvero).
La realtà è che credo ci si possa associare di tutto, a quei nomi. Credo che gli ideatori abbiano fatto qualcosa di meraviglioso. A loro modo, molte fermate hanno etichette evocative, potenti ecco.
Ieri, obbligata a un viaggio della speranza per un corso di formazione (pessima idea, essendo rincasata dopo le 21), riflettevo su "Porto di mare". Mi è sempre stata simpatica: era l'ultima fermata prima di Rogoredo ai tempi dell'università, e Rogoredo voleva dire "treno per tornare a casa". Mi ha sempre dato l'idea di una zona franca prima del confine da oltrepassare per essere felice. Chiamatemi scema, ma è così.
Ieri "Porto di mare" sembrava il nome più azzeccato, dato il nubifragio. Ma non solo.
Ho un po' questa sensazione, ultimamente, di essere una barchetta di carta in un mare in tempesta. Non trovo pace, ci sono venti che mi fanno sbandare di qua e di là e non mi sento sicura, perchè non ho ancore che mi fissano al fondale nè funi che mi legano al molo e che impediscano che mi perda in mare aperto.
C'è mare ovunque, e io non so nuotare. E mi sento in pericolo, disorientata, e i venti che portano acqua salata mi graffiano la faccia. Ho la certezza che il mio "Porto di mare" sia da qualche parte qui vicino; lo sento che mi chiama, lui con il suo faro, ma il cielo nero e la burrasca mi rendono impossibile stabilire quale sia la direzione giusta da seguire.
Non ho voce perchè ho la gola malata, e mi è difficile anche chiedere aiuto e spiegarmi in queste condizioni. So che occorre farlo, però, che forse è necessario provare a parlare anche a costo di ingoiare un po' di acqua salata e sentire bruciare l'esofago.
Così non mollo. Vado avanti, perchè come so da sempre andare avanti è l'unica cosa che so fare bene davvero.
E così, nel frastuono umido di una metro che si sente solo se ci stai attento (non capita lo stesso con molte cose della vita, dico io?), una scopre che una rana salterina non è così diversa da una barchetta di carta che sussulta sulle onde.
Sarà iniziato tutto proprio perchè quel T.i.B.B. non sapevo - e non so ancora oggi - cosa volesse dire, ma indipendentemente da quello, l'idea che qualcuno abbia intitolato le tappe di una lunga marcia nella città mi suggerisce qualcosa di solenne e al tempo stesso genialmente fresco (non so se si capisca davvero).
La realtà è che credo ci si possa associare di tutto, a quei nomi. Credo che gli ideatori abbiano fatto qualcosa di meraviglioso. A loro modo, molte fermate hanno etichette evocative, potenti ecco.
Ieri, obbligata a un viaggio della speranza per un corso di formazione (pessima idea, essendo rincasata dopo le 21), riflettevo su "Porto di mare". Mi è sempre stata simpatica: era l'ultima fermata prima di Rogoredo ai tempi dell'università, e Rogoredo voleva dire "treno per tornare a casa". Mi ha sempre dato l'idea di una zona franca prima del confine da oltrepassare per essere felice. Chiamatemi scema, ma è così.
Ieri "Porto di mare" sembrava il nome più azzeccato, dato il nubifragio. Ma non solo.
Ho un po' questa sensazione, ultimamente, di essere una barchetta di carta in un mare in tempesta. Non trovo pace, ci sono venti che mi fanno sbandare di qua e di là e non mi sento sicura, perchè non ho ancore che mi fissano al fondale nè funi che mi legano al molo e che impediscano che mi perda in mare aperto.
C'è mare ovunque, e io non so nuotare. E mi sento in pericolo, disorientata, e i venti che portano acqua salata mi graffiano la faccia. Ho la certezza che il mio "Porto di mare" sia da qualche parte qui vicino; lo sento che mi chiama, lui con il suo faro, ma il cielo nero e la burrasca mi rendono impossibile stabilire quale sia la direzione giusta da seguire.
Non ho voce perchè ho la gola malata, e mi è difficile anche chiedere aiuto e spiegarmi in queste condizioni. So che occorre farlo, però, che forse è necessario provare a parlare anche a costo di ingoiare un po' di acqua salata e sentire bruciare l'esofago.
Così non mollo. Vado avanti, perchè come so da sempre andare avanti è l'unica cosa che so fare bene davvero.
E così, nel frastuono umido di una metro che si sente solo se ci stai attento (non capita lo stesso con molte cose della vita, dico io?), una scopre che una rana salterina non è così diversa da una barchetta di carta che sussulta sulle onde.
9 novembre 2014
Elenco di quindici #3
Dunque: ora vi spiego cosa capita. Capita che un personaggio a caso mi dica, in una situazione ben particolare: "Beh, questa frase che hai appena detto dovrebbe andare in uno dei tuoi famosi elenchi di 15. Facile farlo con gli altri e fare la figa: perchè non lo fai con le cazzate che dici tu?". Ebbene: se provocata io reagisco e accetto la sfida. Che non sia mai che La Marti si tiri indietro.
1. "Era a te che avevo già fatto il tè ai frutti rossi in casa?". Inutile spiegare che non fosse lui, l'uomo in questione.
2. "Ma dai: grosso non vuol dire grasso!". Inutile dire che l'interlocutore avesse problemi di peso.
3. "No, ma questo è proprio uno dei miei casi disperati ed impossibili: non potrei mai frequentarlo, tranquilla". E poi lo frequento.
4. "Come va oggi Ma?". Si chiamava Luca.
5. "Sì, bello quel racconto lì. Cos'è che volevi esattamente dire?".
6. "Mica mi dirai che sei uno che estate vuol dire mare, la domenica il calcio e il sabato sera discoteca fino alle 5? Ahahah!". Sì. Ah.
7. "Ma ti posso assicurare che non me l'hai mai detto, figurati!". Mi presenta le prove scritte.
8. "Va beh, ma è giusto: se devi andare a fare qualcosa vai e ci vediamo un altro giorno, senza problemi". Alle 20.32.
9. "Sì, ti prego vieni da me". Alle 21.04.
10. Alla domanda "Che fai?", "Mi faccio compagnia. DA SOLA". Perchè il sottinteso è sempre una carta vincente.
11. "Che palle. Mi sono rotta. Non ci vediamo da gennaio e tu ogni 3x2 spunti fuori come un fungo. Voglio dire: se ci pensi è assurdo". In altri casi, la chiarezza è tutto.
12. "Belli. Sono i baffi da attore porno anni '80. Belli.".
13. "Che faccia da rincoglionita quella". Quella, che dopo due secondi lui saluterà, sua amica da una vita.
14. "Ah, ma li metti davvero quei guanti per guidare?". Non era una candid camera.
15. "Ho detto più su!". Questa non la spiego.
Che non si dica che non ho fegato, miei cari.
Ce l'ho. Anche troppo.
1. "Era a te che avevo già fatto il tè ai frutti rossi in casa?". Inutile spiegare che non fosse lui, l'uomo in questione.
2. "Ma dai: grosso non vuol dire grasso!". Inutile dire che l'interlocutore avesse problemi di peso.
3. "No, ma questo è proprio uno dei miei casi disperati ed impossibili: non potrei mai frequentarlo, tranquilla". E poi lo frequento.
4. "Come va oggi Ma?". Si chiamava Luca.
5. "Sì, bello quel racconto lì. Cos'è che volevi esattamente dire?".
6. "Mica mi dirai che sei uno che estate vuol dire mare, la domenica il calcio e il sabato sera discoteca fino alle 5? Ahahah!". Sì. Ah.
7. "Ma ti posso assicurare che non me l'hai mai detto, figurati!". Mi presenta le prove scritte.
8. "Va beh, ma è giusto: se devi andare a fare qualcosa vai e ci vediamo un altro giorno, senza problemi". Alle 20.32.
9. "Sì, ti prego vieni da me". Alle 21.04.
10. Alla domanda "Che fai?", "Mi faccio compagnia. DA SOLA". Perchè il sottinteso è sempre una carta vincente.
11. "Che palle. Mi sono rotta. Non ci vediamo da gennaio e tu ogni 3x2 spunti fuori come un fungo. Voglio dire: se ci pensi è assurdo". In altri casi, la chiarezza è tutto.
12. "Belli. Sono i baffi da attore porno anni '80. Belli.".
13. "Che faccia da rincoglionita quella". Quella, che dopo due secondi lui saluterà, sua amica da una vita.
14. "Ah, ma li metti davvero quei guanti per guidare?". Non era una candid camera.
15. "Ho detto più su!". Questa non la spiego.
Che non si dica che non ho fegato, miei cari.
Ce l'ho. Anche troppo.
4 novembre 2014
Discalculica.
Discalculica. Sì, perchè mi rendo conto di non contare più, di non sapere più contare. Almeno non nel senso comune del termine.
Scrivo adocchiando un foglio e il 12 ottobre, che pare alla mia testa così lontano, scopro, in realtà è meno di un mese fa.
E quanto possono essere difficili da contare 60 giorni? Un pugnetto di date e numeretti che si scombinano nella memoria per dare origine a qualcosa che non riesco a leggere neppure se mi metto a testa in giù. Seduta sul pavimento, le chiappe al freddo e la schiena appoggiata al calorifero.
Quante cose sono state omologate nelle nostre equivalenze? Quante prima di scoprire che un chilo son mille grammi e che a dire l'uno o l'altro si dice esattamente la stessa cosa? Quante equazioni e parentesi graffe a bordare i giorni che da miti si son fatti umidi e poi freddi? Quanti problemi da risolvere senza calcolatrice, che i calli alle dita fan troppo male per poter schiacciare tasti? Quanti scontrini senza resto, quello dallo alla vita, che altrimenti qualcosa in cambio lo chiede a me in persona, ed ora io son troppo ricca di una cosa sola, che non la voglio dare a nessuno. Che è mia, mia soltanto. Mia.
E le percentuali? Quelle mi osservano sempre, da lontano. Chiedono le fette che io non ho mai saputo fare con precisione, perchè mi son sempre affidata al cuore per dare la giusta dimensione alle cose. Che "affetto" non è verbo ma nome, e nemmeno astratto, ultimamente. E nel palmo della mano riconosco i contorni di un cuore che batte ancora; roba poco scontata, tornando ai numeri.
E quindi discalculica, sì. Perchè non conto più, non nel senso canonico del termine. Con le monete non l'ho proprio mai saputo fare, e ora anche con i giorni. Non voglio più contare, non ne sono capace.
Voglio invece contare per qualcuno, qualcosa che non siano numeri, che non siano tabelle, che non siano ore e giorni e stagioni. Che se non ci sono più le mezze, di stagioni, allora inventiamoci le doppie, le triple, o le frazioni più piccine.
Che ad attaccare etichette ai quadri, se ne preoccupano solo i commercianti o i compratori, ed io non ho nè esperienza nè soldi a sufficienza per essere uno di loro.
Io sono un'esperta di altro.
So tutto di quello che chiudi gli occhi la sera, e alla mattina li riapri stanca, consapevole di aver viaggiato tutta la notte.
Io sono un'esperta del sogno bambino.
Io sono un'esperta del sogno, bambino.
Scrivo adocchiando un foglio e il 12 ottobre, che pare alla mia testa così lontano, scopro, in realtà è meno di un mese fa.
E quanto possono essere difficili da contare 60 giorni? Un pugnetto di date e numeretti che si scombinano nella memoria per dare origine a qualcosa che non riesco a leggere neppure se mi metto a testa in giù. Seduta sul pavimento, le chiappe al freddo e la schiena appoggiata al calorifero.
Quante cose sono state omologate nelle nostre equivalenze? Quante prima di scoprire che un chilo son mille grammi e che a dire l'uno o l'altro si dice esattamente la stessa cosa? Quante equazioni e parentesi graffe a bordare i giorni che da miti si son fatti umidi e poi freddi? Quanti problemi da risolvere senza calcolatrice, che i calli alle dita fan troppo male per poter schiacciare tasti? Quanti scontrini senza resto, quello dallo alla vita, che altrimenti qualcosa in cambio lo chiede a me in persona, ed ora io son troppo ricca di una cosa sola, che non la voglio dare a nessuno. Che è mia, mia soltanto. Mia.
E le percentuali? Quelle mi osservano sempre, da lontano. Chiedono le fette che io non ho mai saputo fare con precisione, perchè mi son sempre affidata al cuore per dare la giusta dimensione alle cose. Che "affetto" non è verbo ma nome, e nemmeno astratto, ultimamente. E nel palmo della mano riconosco i contorni di un cuore che batte ancora; roba poco scontata, tornando ai numeri.
E quindi discalculica, sì. Perchè non conto più, non nel senso canonico del termine. Con le monete non l'ho proprio mai saputo fare, e ora anche con i giorni. Non voglio più contare, non ne sono capace.
Voglio invece contare per qualcuno, qualcosa che non siano numeri, che non siano tabelle, che non siano ore e giorni e stagioni. Che se non ci sono più le mezze, di stagioni, allora inventiamoci le doppie, le triple, o le frazioni più piccine.
Che ad attaccare etichette ai quadri, se ne preoccupano solo i commercianti o i compratori, ed io non ho nè esperienza nè soldi a sufficienza per essere uno di loro.
Io sono un'esperta di altro.
So tutto di quello che chiudi gli occhi la sera, e alla mattina li riapri stanca, consapevole di aver viaggiato tutta la notte.
Io sono un'esperta del sogno bambino.
Io sono un'esperta del sogno, bambino.
"Autumn elegy", L. Afremov |