In quella
foto, risalente alle elementari, Nan aveva le sopracciglia folte e lo sguardo
da bimba imbronciata.
Pensava
fosse proprio quest’ultimo che lo aveva fatto innamorare, insieme alle
lentiggini.
Erano
passati quindici anni da allora, e lei aveva fatto tanta strada.
Si era
laureata (in qualcosa che lui non aveva ben compreso), si era sposata con uno
dei ragazzi dell’oratorio con cui era cresciuta, si era trasferita (fortunatamente
per soli tre mesi) negli Stati Uniti dopo la cerimonia e aveva coltivato le sue
passioni più grandi: corsa, fotografia e arrampicate.
Sembrava
felice. Il giorno del matrimonio l’aveva spiata dal bar posto in fronte al
sagrato della chiesa. Era una dea, non una donna di venticinque anni. Era una
dea che qualcuno aveva posato lì sul cemento, per far capire a tutti che il
paradiso esisteva. Non era tanto il vestito vaporoso – tulle bianco ovunque –,
né le spalle e le braccia abbronzate che avrebbero fatto invidia a qualsiasi
essere umano. Non erano i lunghi capelli scuri acconciati nella crocchia, non il
collo che disegnava una linea morbida verso il seno. Era il suo sguardo: suggeriva
carattere, forza, fortuna. Chiunque ne sarebbe rimasto estasiato.
Con un
bicchiere d’acqua fredda davanti a sé, al tavolino del bar, lui si era innamorato
di Nan una seconda volta.
Circa sei
mesi dopo era arrivato l’invito per la cena di classe, stampato su carta bianca
dove era stata aggiunta alla bell’e meglio quella vecchia foto. Intuiva da chi
potesse essere sorta l’idea; la solita rompiballe ficcanaso – lo era stata sin
dall’asilo – che conosceva gli affari di tutto il paese. “Sarà come tornare ai
vecchi tempi”, diceva l’invito. “Un modo come un altro per aggiornarci. Nessuno
ha il diritto di mancare!”.
Lui ci aveva
pensato molto, ma alla fine aveva deciso di presentarsi alla serata.
L’ultima
volta che aveva avuto a che fare con Nan era stato dopo il matrimonio. Le aveva
lasciato un biglietto firmato, appoggiato al tavolo degli sposi durante il
pranzo (al quale non era stato invitato, chiaramente). L’aveva osservata mentre lo leggeva, per poi guardarsi attorno
smarrita con quel solito sguardo imbronciato. Le aveva scritto, semplicemente: “Io
sarò sempre qua, lo sai”.
Aveva
rispettato la promessa per tutti quei mesi, tranne durante il soggiorno in
America. Erano stati giorni difficili: aveva potuto mantenere i contatti solo
attraverso i social network e le fotografie da lei postate, tramite amicizie in
comune. Ma alla fine Nan era tornata, più bella che mai.
Si era
arreso da tempo. Nan non lo avrebbe mai amato.
Del resto,
quello che lui poteva offrirle era soltanto terra. Campi coltivati, cascine,
animali da allevamento. Era ben lontano dal possedere lo charme o le conoscenze
del marito che lei si era scelta. Lui era per la pratica, non per la teoria. Il
suo lavoro lo sapeva fare bene, gestiva le attività in maniera oculata, ma
sempre di agricoltura e letame si trattava. L’odore di merda – come soleva dire
il nonno tanto tempo prima – non lo poteva togliere nemmeno il più potente
profumo di lillà. Attecchiva, si spargeva subdolo, per poi pungere le narici
alla prima occasione.
Non era
fatto per stare con Nan. Questo non escludeva il fatto che lui comunque l’amasse.
L’avrebbe
amata per sempre.
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La sera
della cena di classe il tempo era mite.
Lui, jeans
neri e camicia a quadri con le maniche arrotolate, si appoggiò ad un muretto a
lato del parcheggio. Aveva già visto entrare alcuni ex compagni, ma aveva
cercato di non dare nell’occhio. Stava aspettando Nan; se avesse avuto un colpo
di fortuna, sarebbe riuscito ad intercettarla prima dell’ingresso nel locale e
avrebbe scambiato qualche parola con lei.
Proprio in
quell’istante vide la sua auto. Il grigio metallizzato si rifletté nei suoi
occhi gelidi, provocandogli una palpitazione rapida che cercò di soffocare
deglutendo a vuoto.
Si avvicinò piano
al veicolo, dando a Nan il tempo di accorgersi della sua presenza.
Lei uscì con
lo sguardo puntato verso il suo. Indossava un abito lungo e nero, con maniche a
tre quarti e la linea semplice, volta a sottolineare il corpo snello ed
atletico.
Appoggiò la mano
sulla portiera, e lui si mise a fissare la fede sull’anulare.
-
Sei venuto… - commentò lei.
-
Ho sbagliato? -.
-
Puoi fare ciò che vuoi. Solo mi pare strano -.
Vide in lei una finta freddezza che non aveva mai notato, come se patisse un
male ovattato e profondo.
-
Perché strano? Ti ho detto che ci sarei sempre
stato -.
-
Appunto. Non è andata così, mi sembra -.
Lui sorrise
appena, ma continuò a guardare Nan con uno strano disagio addosso.
-
Sono sempre stato con te. Sempre -.
-
No. Mi hai lasciata sola, anche quando pensavo
che avresti fatto qualcosa per riprendermi. Mi hai lasciata andare. Al
matrimonio.. -.
-
Non mi hai invitato! – la interruppe.
-
Scuse. Dovevi venire e portarmi via da lì. Non l’hai
fatto -.
-
Avrei rovinato il tuo… -.
-
Scuse, scuse, scuse! Non hai fatto niente. Non
sono abbastanza importante. Non ne vale la pena. Va bene così -.
-
Dimmi cosa devo fare -. Allargò le braccia.
-
Adesso? Nulla. Hai avuto un paio di occasioni
per fare. Avevi una data… -.
-
Una data? – le chiese lui non capendo. Lei
annuì.
-
Una data di scadenza - gli disse, dirigendosi
verso il ristorante. Poi si voltò ancora verso di lui, il solito sguardo
imbronciato rivolto ad un punto impreciso fra lei e l’infinito.
-
Sei scaduto – aggiunse.
E se ne
andò.
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