16 novembre 2025

Il sostituto

 “Non ti preoccupare Filo, tornerò presto”, sussurrò l’uomo accarezzando il felino dietro l’orecchio sinistro, il suo punto preferito. L’animale iniziò immediatamente ad emettere delle fusa lente e armoniose, suono che gli strinse la gola e acuì leggermente i suoi sensi di colpa.

Il lavoro che gli era capitato sottomano, però, gli serviva per campare. Antonio avrebbe sostituito il vecchio bidello della scuola locale, ricoverato in ospedale dopo una brutta caduta dalle scale. “Sembra che la frattura abbia purtroppo portato alla luce un problema di salute sottostante ben più grave”, gli aveva rivelato il Dirigente durante il colloquio. “Non sappiamo se e quando il povero Ennio sarà in grado di tornare ad occuparsi della scuola”.  

Per Antonio, rimasto a casa per mesi dopo la dismissione della raffineria in cui aveva lavorato per vent’anni, quella era un’occasione imperdibile. Le giornate passate senza occupazione gli erano sembrate infinite e non gli serviva certo uno psicologo - che non avrebbe peraltro potuto permettersi - per capire che era caduto in una lieve depressione. L’unica luce in mezzo a tutto quel buio era stato Filo, il suo gatto domestico. Era stato l’unico appiglio, il solo motivo che lo aveva spinto ad alzarsi la mattina ed uscire di casa per procurare quantomeno le scatolette alla trota che tanto gli piacevano.

Filo era con lui da quasi dodici anni, e apparteneva originariamente a sua figlia. Quando tuttavia la ragazza si era trasferita a Milano per frequentare l’università, non aveva avuto modo di portare il gatto con sé. “Lo tratterai bene, vero?”, gli aveva domandato supplicandolo. Inizialmente restio, Antonio si era poi lasciato conquistare da quella bestiolina morbida e calda, che animava le sue serate talvolta con piccoli dispetti e agguati da dietro il divano, talvolta con lunghissime sessioni di coccole e dormite sulle sue gambe.

“Tornerò presto” ripeté, stringendolo per pochi istanti. “Andrà tutto bene”.

 

Filo lo accolse in casa poco dopo le 17:30. Iniziò a strusciarsi sulle sue caviglie e a “parlargli”, proprio com’era abituato a fare. Sua figlia sosteneva che fosse una prerogativa dei gatti rossi e che per inibire questa caratteristica sarebbe bastato ignorarlo e non rispondergli per qualche tempo. La verità era che ad Antonio la cosa non dispiaceva. Certo: non era simpatico trovarlo accanto al letto alle tre di notte, impegnato in lunghe conversazioni lamentose per richiedere qualche croccantino; ma se non lo avesse fatto col gatto, con chi avrebbe dovuto chiacchierare? Quella casa era vuota da troppo tempo e le sue relazioni sociali erano praticamente inesistenti.

“Eccomi. Hai visto che ho rispettato la promessa?” gli chiese.

L’animale in risposta si gettò sul pavimento a pancia in su e si allungò fin quasi a raddoppiare la sua lunghezza. L’uomo infilò i polpastrelli nel pelo morbidissimo e tiepido dell’addome e lo coccolò un poco. Poi andò in cucina per riempire la ciotola ormai vuota con qualche croccantino.

Sospirò. Era davvero andato tutto bene, in fondo, e sorrise.

 

 

Ai primi di dicembre la scuola comunicò all’uomo che il suo impego sarebbe diventato definitivo. “Il tuo ruolo non è più quello di sostituto, Antonio. Considerati da oggi il collaboratore scolastico ufficiale della nostra scuola”.

Quando chiamò sua figlia e la aggiornò delle novità, la ragazza gli parve sinceramente felice. Credeva che anche lei si fosse resa conto, nonostante la distanza che li separava, dello stato umorale in cui era piombato soprattutto durante i mesi estivi di quell’anno. “Te lo meriti papà”, disse. “Verrò presto a trovarti e festeggeremo: io, te e Filo”. Quasi come se l’avesse sentita chiamarlo, il gatto emise un debole miagolio di approvazione dal davanzale della finestra sul quale stava accucciato.

Le cose proseguirono lineari per un paio di mesi, fino a quando un tardo pomeriggio di febbraio, al consueto rientro dal lavoro, Antonio notò che il miagolio di Filo quel giorno appariva strano. Sembrava quasi meccanico, un segnale non squillante come al solito ma ovattato e “sporco”. Gli tornarono alla mente quei vecchi pupazzi che ospitavano nell’ovatta interna le scatolette nere bucherellate con l’alloggiamento per le batterie e i cui contatti spesso si rovinavano col passare del tempo, rendendo il messaggio in uscita a tratti raccapricciante. “Forse si tratta di qualche disturbo respiratorio”, si disse. “Filo inizia ad avere una certa età, è possibile che si tratti di asma felina o che i polmoni non lavorino più così bene. Devo tenere monitorata la cosa”.

Il giorno dopo, tuttavia, le cose non cambiarono e, in aggiunta, Antonio trovò la ciotola ancora colma della pappa alla trota che aveva versato al suo interno prima di uscire. La svuotò nell’umido e tentò con le crocchette. Ma, anche quelle Filo le annusò di sfuggita, ne addentò due o tre e poi si allontanò annoiato. Il giorno dopo, di nuovo, la pappa era stata appena sfiorata. Entrando, infatti, era stato aggredito da un terribile odore, come se stesse attraversando la zona ombrosa e umida di un bosco. “È odore di marcio”, gli dissero i suoi pensieri; concluse che di certo non poteva permettersi di lasciare la pappa esposta per tutte le ore in cui si trovava al lavoro. Uscì di corsa a sbarazzarsi del sacchetto pieno di cibo avanzato e telefonò al veterinario.

Tuttavia, rispose solo la voce meccanica di un messaggio preregistrato: “Si informano i gentili clienti che la clinica resterà chiusa per due settimane a causa di lavori di manutenzione e di ammodernamento. Ci scusiamo per il disagio. Per le situazioni di emergenza consigliamo di contattare il numero verde sempre attivo all’800…”. Riattaccò, sbuffando.

“Che cosa sta succedendo Filo?”, chiese Antonio all’animale, quasi avesse facoltà di rispondergli davvero. Il micio miagolò con quella sua nuova voce smorzata e alzò il musetto spalancando gli occhi gialli. Lo sguardo però non era rivolto al padrone, bensì ad altro. “Che cosa guardi?” chiese l’uomo, voltandosi verso la parete dietro di lui. Non l’avrebbe mai verbalizzato ad alta voce, ma la domanda gli risuonava in testa era “Che cosa vedi?”. Deglutì a vuoto, sentendosi sciocco ad essere impaurito nella sua stessa casa. “Probabilmente Filo sta davvero invecchiando, proprio come me…”; il pensiero lo rappacificò un poco e un velo di malinconia bagnò il suo sguardo.

L’animale, che stava ancora osservando qualcosa dietro alle sue spalle, senza nessun preavviso fece un piccolo balzo su se stesso e se ne andò dalla stanza.

 

 

Circa dieci giorni dopo, Antonio inserì la chiave nella serratura col pensiero già rivolto alla telefonata che di lì a breve avrebbe fatto finalmente alla Clinica veterinaria. Le condizioni di Filo, infatti, non erano migliorate, sebbene fossero rimaste stazionarie. Era deciso ad approfondire la situazione per capire se si dovesse arrendere ad un lento declino del suo compagno di vita, o se si potesse al contrario fare qualcosa per aiutarlo.

Arricciò le narici sentendo di nuovo quel tanfo mefitico provenire dall’appartamento; durante la settimana aveva provato a svuotare e pulire tutto lo scomparto sotto al lavandino, ma non aveva risolto nulla. Una sera aveva addirittura preso in braccio Filo e lo aveva annusato, per capire se potesse essere lui l’origine di quell’odore. Nemmeno lì, per fortuna, c’era la risposta.

Attraversò a larghe falcate il corridoio, stranito dell’assenza dell’animale al suo rientro; “Filo, tutto ok?”, chiese. Prese a dirigersi verso il salotto, ma nel farlo inciampò nell’angolo dell’appendiabiti e una giacca appesa crollò a terra. Dalla tasca fuoriuscì una pallina antistress – un regalo di sua figlia – che rotolò per diversi metri fino a scomparire dietro la cassapanca.

Antonio si inginocchiò e illuminò l'angolo buio con la torcia del telefono per recuperare l'oggetto. “Oddio, che puzza c’è qui…” sussurrò, prima di restare impietrito. I suoi occhi, infatti, stavano analizzando l’oggetto che la luce fredda del flash aveva svelato. Da lì, accucciato com’era, quell’ammasso informe sembrava qualcosa di molle, denso e ricoperto di peli.

Dopo aver infilato un paio di guanti in lattice che utilizzava per le pulizie con la candeggina, Antonio tirò fuori l'oggetto. Non era chiaramente la pallina antistress. Era un corpicino, ormai leggermente decomposto, di un animale; ciò che portò il suo cuore ad accelerare sempre di più, tuttavia, era che non si trattava di un topo o di qualcosa di simile, no. Il piccolo cranio, schiacciato, sembrava infatti lesionato soltanto nella parte posteriore. Quando Antonio lo voltò, due familiari occhi gialli spalancati lo fissarono, muti. Mollò il cadavere di Filo, che ricadde a terra in un silenzio agghiacciante.

“Ma, allora…”, sussurrò, voltandosi lentamente.

“Antonio, Antonio…”, sentì uscire dalla bocca felina, con la strana voce che negli ultimi giorni aveva imparato a conoscere bene. Il cuore dell’uomo non resse a tutto quel terrore e l’ultima cosa che riuscì ad avvertire fu un dolore improvviso al petto. Il sostituto di Filo lo osservò morire da pochi metri di distanza, passando la lingua sulle vibrisse.

 

 

“E quindi ti trovi bene a lavoro?”, gli chiese la ragazza sorridendo.

“Sì, non c’è nulla di cui potrei lamentarmi, davvero”, rispose lui con un’espressione impassibile. “Mangia, che si fredda”, aggiunse.

Annalisa assentì. Infilò la forchetta nella pasta e la portò alla bocca. Poi aggrottò la fronte.

“Mh. C’è qualcosa di diverso nella ricetta? Cos’hai messo nel sugo?”.

“No, davvero le solite cose, tesoro”, rispose Antonio, del tutto pacifico.

Lui la osservò, e alla ragazza parve di scorgere un guizzo soddisfatto nel suo sguardo. Non anomalo, forse, ma diverso dal solito. Sembrava, soprattutto, non avesse più preoccupazioni al mondo.

“Papà sta invecchiando”, disse fra sé, cercando di reprimere un nodo alla gola. Distolse lo sguardo dal padre e riprese a mangiare. La pasta, pensò, aveva un retrogusto vagamente metallico.

19 novembre 2022

Come nei minimondi di Mighty Max

Mentre io e la sua mamma parlavamo di come fosse andata la seduta logopedica, L. ha iniziato a girovagare per la stanza cercando disastri da fare perché la nostra attenzione si calamitasse nuovamente su di lui. Entrambe lo seguivamo con la coda dell'occhio assicurandoci semplicemente che non si cacciasse nei guai.

Non appena si è avvicinato all'archivio dove tengo le cartelle di tutti i pazienti con inseriti dati sensibili, tuttavia, mi sono avvicinata a lui e cercando di restare dolce gli ho spiegato che quel cassettone appena spalancato doveva essere richiuso immediatamente perché conteneva cose che non potevano essere disordinate come i mattoncini Lego.

L., 5 anni, si è arrabbiato e ha sbattuto il cassetto, per poi andarsene dalla stanza senza nemmeno rivolgermi la parola e senza salutare, nonostante si fosse divertito tanto nei 45 minuti precedenti.

Pensavo solo che il modo in cui incassiamo i "no", dice tanto di quanta instabilità e incertezza ci contraddistinguano. C'è chi è disposto ad attendere il momento giusto e le spiegazioni, chi è flessibile e paziente. C'è chi invece è rigido, coi piedi piantati in fosse a forma d'impronta come nei minimondi di MightyMax.

Ma non è cattiveria, è semplicemente insicurezza.
Un'insicurezza immensa.




11 novembre 2022

Provarci.

Correndo da lavoro in stazione controllo lo stato del treno che devo prendere. 23 minuti di ritardo. Smetto di correre. Capisco che avendo 9 minuti di tempo per non perdere la coincidenza, mi dovrò armare di pazienza e arrivare a destinazione un'ora dopo.

A meno che - sussurra la mia mente brillante - a meno che anche la coincidenza sia in ritardo, e allora avresti un incastro fortunato degno di nota. Sorridendo controllo l'app. La coincidenza è stata soppressa. Mi fermo sul posto, il telefono nella mano, lo zainetto stipato, gli stivaletti piantati sui sanpietrini.

Ci fosse una cosa, UNA SOLA, che vada dritta come voglio io. No. Fermo i pensieri che mi bloccano il problem solving. Arrivo in stazione. Vado sul binario. Un uomo si avvicina allungandomi il cellulare: "Scusa, devo cancellare questo numero, non lo voglio più". "Ma non è salvato", ribatto, "È solo nella memoria del registro chiamate". Mi guarda come se gli stessi spiegando il funzionamento di uno spettrometro di massa. Anche io mi sento non salvata e sicuramente non salva, penso, così decido di aiutarlo. "Fa niente. Aspetti". Seleziono, premo il bidone e l'esistenza di quel numero non salvato sparisce. "Fatto già?", domanda l'uomo. Annuisco. Se ne va.

Ricomincio a pensare a ciò che posso fare. Nel frattempo mi scrivono mille pazienti che hanno scelto proprio questa giornata, proprio questa fascia oraria, proprio questo momento preciso, per condividere con me richieste o problemi di ogni sorta. Le chiedo di contattare entro sera la coordinatrice delle insegnanti. Quando posso chiamarla per chiederle una cosa? Mi daresti il prossimo appuntamento? Per caso la mia bambina ha lasciato il giubbino da voi in sala d'attesa?

Ignora. Ignora. Ignora. Ignora.

L'altoparlante rimbomba nella stazione. Sta arrivando un altro treno. Segue una tratta diversa rispetto alla mia ma so che in un modo o nell'altro potrei riuscire a raggiungere la mia destinazione anche da lì. Inforco il sottopasso e salgo di volata, mentre acquisto dall'app un biglietto non più acquistabile perché è passato l'orario. Ne prendo uno di un orario successivo mentre mi preparo a dover litigare col capotreno pignolo perché oggi sta andando tutto male. No: sta andando tutto malissimo. Invece faccio le mie tre fermate senza intoppi. Scendo. Guardo il tabellone. La mia coincidenza sta arrivando, ripartirà fra venti minuti.

Ce l'ho fatta. Mi siedo, sono l'unica con una ffp2 indossata. Passa un ragazzino dell'università, anche lui porta una ffp2. Mi guarda. "È libero?", chiede. Annuisco. Ce l'ho fatta. Arriveró con soli 20 minuti di ritardo rispetto al programma iniziale.

Non è che non capisca la morale, la capisco eccome. Le cose trovano sempre modi arzigogolati per andare, nella mia vita. È solo che sono malata di una stanchezza infinita. Non avrei bisogno di dormire, avrei bisogno di sparire. Come quel numero non salvato. O non salvo, non ricordo più.

Mi lascio cullare dal ritmo del treno, assecondandone i movimenti. Sprofondo nel giubbotto messo a mo' di scialle con la musica nelle orecchie, conscia di non poter sbagliare: la mia fermata è il capolinea. Non è successo niente. Va tutto bene. La giornata è finita, non può che migliorare, mi convinco.

All'improvviso, però, un ronzio dal telefono.
"Allora, l'ha sentita la coordinatrice?".

Una cornice dalla tela imbarcata.


6 ottobre 2022

Ottobre

"Si sono dimenticate di me?", chiede lei con gli occhi acquosi e spalancati, la bocca a formare una O gigantesca.
"Ma no, assolutamente no", le rispondo. Lei però fissa un punto che definirei quello dei pensieri paurosi. Non mi ascolta. Non esisto. Non ci sono. 

"Ehi", le dico. Le afferro le mani, le appoggio sul tavolo e sulle schede che stiamo compilando, sotto le mie. Finalmente riesce a vedermi. 
"Nessuno si può dimenticare di te. E poi ho il numero della nonna scritto proprio qui. La chiamo e la faccio tornare correndo se quando usciamo dalla stanza non è in sala d'attesa, d'accordo?". Allora sorride.
"Di corsa", dice infine. 

Ora, alle 20:41 di un giovedì molto lungo, vorrei semplicemente smettere di pensare a quegli occhi. A quel terrore nascosto lì dentro. A quanto l'ho riconosciuto, e compreso, e temuto. Abbiamo tutti una paura folle di finire nel dimenticatoio di qualcuno, abbiamo così bisogno di essere pensati, ricordati, rievocati. 

Sono giorni così difficili questi di ottobre, quelli in cui la nebbia inizia a salire dal fondo dei campi, si appresta a travestire tutto di contorni indistinti e lattiginosi. Così irreali da sembrare finti.

9 giugno 2022

8 giugno.

Da qualche tempo il livello d'ansia è aumentato. Mi sveglio alle 4 del mattino, ho nausea tutto il giorno, sento le budella contorcermisi nel ventre, quando mi lavo i denti è una lotta contro il rimettere la colazione, alla sera mi pulsa un occhio. Ieri sera e stamattina alle 4 mi pulsava anche il labbro inferiore, forse per tutto ciò che non dice o non fa, ho pensato. Sarebbe quasi da riderci sopra.

Mamma è quella persona che il 2 giugno mi scrive per dire di fare la brava e fare gli auguri alla nonna che sa che odio. Non chiama mio fratello per fare lo stesso, perché sa che lui la manderebbe a fare in culo mentre io sono quella più comprensiva. Lo sono talmente tanto che quando al telefono lei si mette a piangere dicendomi che le spiace pensarmi qui da sola, ricaccio giù la rispostaccia che mi sale alle labbra e non le dico che se è preoccupata può alzare il culo e venire qui, che non sto in Congo, sto solo a 40 km di distanza. Che rivoglio il mio completo verde del letto che lei sta usando senza aver chiesto il permesso. Che come al solito sto facendo ogni cosa da sola: cambio casa, vita, persone, luoghi e in più mi reggo in piedi. Cazzo, come mi ha insegnato lei a fare le cose da sola e senza lamentarmi, non lo insegna davvero nessuno.

E gli auguri li faccio a chi cazzo voglio io, e di sicuro non a mia nonna. Non quest'anno, non io che mi sono accorta che a 33 anni ho finito la voglia di adattarmi a tutto e a tutti. Scivolano, le cose scivolano e io non le trattengo più. Se se ne vogliono andare, allora che lo facciano. A volte basta non rispondere. A volte basta non mettere in dubbio la veridicità dei gesti; perché no, non è cattiveria: è idiozia. Ho finito di partecipare ai processi alle mie intenzioni.

Sono sempre stata troppo trasparente, una rana cristallo. Mi è sempre importato troppo. Sono stata sempre troppo seconda a qualsiasi cosa. "Sono sempre stata piena d'amore, piena da scoppiare."



4 giugno 2022

Sabato mattina

Mi piace arrivare prima il sabato mattina con la sala d'attesa libera, le stanze vuote e la radio in sottofondo. Sorseggiare lenta il caffè. E pensarti lì, tutto serio, la fronte aggrottata. Due mezzelune scure sotto gli occhi e il viso un po' tirato, stanco. Lì, a dire a te stesso che sei tutto fuorché carino, conciato così. 

Pensare che invece sei bellissimo, uno dei pensieri più luminosi di questo sabato finto. Un sabato di cartapesta, tirato dai fili, come un burattino.




10 maggio 2022

Polaroid #1

La strategia è pensare al profumo del bucato appena steso che si intravede dietro la tenda tirata e mossa dal vento, il vetro spalancato perché fa caldo, e sentire un brivido strano lungo la schiena, un brivido che sussurra che l'estate sta arrivando, ma non ancora.

Arriverà, ma non ancora.

Malcolm T. Liepke