“Non ti preoccupare Filo, tornerò presto”, sussurrò l’uomo accarezzando il felino dietro l’orecchio sinistro, il suo punto preferito. L’animale iniziò immediatamente ad emettere delle fusa lente e armoniose, suono che gli strinse la gola e acuì leggermente i suoi sensi di colpa.
Il lavoro che gli era capitato sottomano, però, gli serviva
per campare. Antonio avrebbe sostituito il vecchio bidello della scuola locale,
ricoverato in ospedale dopo una brutta caduta dalle scale. “Sembra che la
frattura abbia purtroppo portato alla luce un problema di salute sottostante
ben più grave”, gli aveva rivelato il Dirigente durante il colloquio. “Non
sappiamo se e quando il povero Ennio sarà in grado di tornare ad occuparsi della
scuola”.
Per Antonio, rimasto a casa per mesi dopo la dismissione
della raffineria in cui aveva lavorato per vent’anni, quella era un’occasione
imperdibile. Le giornate passate senza occupazione gli erano sembrate infinite
e non gli serviva certo uno psicologo - che non avrebbe peraltro potuto
permettersi - per capire che era caduto in una lieve depressione. L’unica luce
in mezzo a tutto quel buio era stato Filo, il suo gatto domestico. Era stato l’unico
appiglio, il solo motivo che lo aveva spinto ad alzarsi la mattina ed uscire di
casa per procurare quantomeno le scatolette alla trota che tanto gli piacevano.
Filo era con lui da quasi dodici anni, e apparteneva
originariamente a sua figlia. Quando tuttavia la ragazza si era trasferita a
Milano per frequentare l’università, non aveva avuto modo di portare il gatto
con sé. “Lo tratterai bene, vero?”, gli aveva domandato supplicandolo. Inizialmente
restio, Antonio si era poi lasciato conquistare da quella bestiolina morbida e
calda, che animava le sue serate talvolta con piccoli dispetti e agguati da
dietro il divano, talvolta con lunghissime sessioni di coccole e dormite sulle
sue gambe.
“Tornerò presto” ripeté,
stringendolo per pochi istanti. “Andrà tutto bene”.
Filo lo accolse in casa poco
dopo le 17:30. Iniziò a strusciarsi sulle sue caviglie e a “parlargli”, proprio
com’era abituato a fare. Sua figlia sosteneva che fosse una prerogativa dei
gatti rossi e che per inibire questa caratteristica sarebbe bastato ignorarlo e
non rispondergli per qualche tempo. La verità era che ad Antonio la cosa non dispiaceva.
Certo: non era simpatico trovarlo accanto al letto alle tre di notte, impegnato
in lunghe conversazioni lamentose per richiedere qualche croccantino; ma se non
lo avesse fatto col gatto, con chi avrebbe dovuto chiacchierare? Quella casa
era vuota da troppo tempo e le sue relazioni sociali erano praticamente
inesistenti.
“Eccomi. Hai visto che ho
rispettato la promessa?” gli chiese.
L’animale in risposta si gettò
sul pavimento a pancia in su e si allungò fin quasi a raddoppiare la sua
lunghezza. L’uomo infilò i polpastrelli nel pelo morbidissimo e tiepido
dell’addome e lo coccolò un poco. Poi andò in cucina per riempire la ciotola
ormai vuota con qualche croccantino.
Sospirò. Era davvero andato
tutto bene, in fondo, e sorrise.
Ai primi di dicembre la scuola comunicò all’uomo che il suo
impego sarebbe diventato definitivo. “Il tuo ruolo non è più quello di
sostituto, Antonio. Considerati da oggi il collaboratore scolastico ufficiale
della nostra scuola”.
Quando chiamò sua figlia e la aggiornò delle novità, la
ragazza gli parve sinceramente felice. Credeva che anche lei si fosse resa
conto, nonostante la distanza che li separava, dello stato umorale in cui era
piombato soprattutto durante i mesi estivi di quell’anno. “Te lo meriti papà”,
disse. “Verrò presto a trovarti e festeggeremo: io, te e Filo”. Quasi come se
l’avesse sentita chiamarlo, il gatto emise un debole miagolio di approvazione
dal davanzale della finestra sul quale stava accucciato.
Le cose proseguirono lineari per un paio di mesi, fino a
quando un tardo pomeriggio di febbraio, al consueto rientro dal lavoro, Antonio
notò che il miagolio di Filo quel giorno appariva strano. Sembrava quasi
meccanico, un segnale non squillante come al solito ma ovattato e “sporco”. Gli
tornarono alla mente quei vecchi pupazzi che ospitavano nell’ovatta interna le
scatolette nere bucherellate con l’alloggiamento per le batterie e i cui
contatti spesso si rovinavano col passare del tempo, rendendo il messaggio in
uscita a tratti raccapricciante. “Forse si tratta di qualche disturbo
respiratorio”, si disse. “Filo inizia ad avere una certa età, è possibile che
si tratti di asma felina o che i polmoni non lavorino più così bene. Devo tenere
monitorata la cosa”.
Il giorno dopo, tuttavia, le cose non cambiarono e, in
aggiunta, Antonio trovò la ciotola ancora colma della pappa alla trota che
aveva versato al suo interno prima di uscire. La svuotò nell’umido e tentò con
le crocchette. Ma, anche quelle Filo le annusò di sfuggita, ne addentò due o
tre e poi si allontanò annoiato. Il giorno dopo, di nuovo, la pappa era stata
appena sfiorata. Entrando, infatti, era stato aggredito da un terribile odore,
come se stesse attraversando la zona ombrosa e umida di un bosco. “È odore
di marcio”, gli dissero i suoi pensieri; concluse che di certo non poteva
permettersi di lasciare la pappa esposta per tutte le ore in cui si trovava al
lavoro. Uscì di corsa a sbarazzarsi del sacchetto pieno di cibo avanzato e
telefonò al veterinario.
Tuttavia, rispose solo la voce meccanica di un messaggio
preregistrato: “Si informano i gentili clienti che la clinica resterà chiusa
per due settimane a causa di lavori di manutenzione e di ammodernamento. Ci
scusiamo per il disagio. Per le situazioni di emergenza consigliamo di
contattare il numero verde sempre attivo all’800…”. Riattaccò, sbuffando.
“Che cosa sta succedendo Filo?”, chiese Antonio all’animale,
quasi avesse facoltà di rispondergli davvero. Il micio miagolò con quella sua
nuova voce smorzata e alzò il musetto spalancando gli occhi gialli. Lo sguardo
però non era rivolto al padrone, bensì ad altro. “Che cosa guardi?” chiese l’uomo,
voltandosi verso la parete dietro di lui. Non l’avrebbe mai verbalizzato ad
alta voce, ma la domanda gli risuonava in testa era “Che cosa vedi?”.
Deglutì a vuoto, sentendosi sciocco ad essere impaurito nella sua stessa casa. “Probabilmente
Filo sta davvero invecchiando, proprio come me…”; il pensiero lo
rappacificò un poco e un velo di malinconia bagnò il suo sguardo.
L’animale, che stava ancora
osservando qualcosa dietro alle sue spalle, senza nessun preavviso fece un
piccolo balzo su se stesso e se ne andò dalla stanza.
Circa dieci giorni dopo, Antonio inserì la chiave nella
serratura col pensiero già rivolto alla telefonata che di lì a breve avrebbe
fatto finalmente alla Clinica veterinaria. Le condizioni di Filo, infatti, non
erano migliorate, sebbene fossero rimaste stazionarie. Era deciso ad
approfondire la situazione per capire se si dovesse arrendere ad un lento declino
del suo compagno di vita, o se si potesse al contrario fare qualcosa per
aiutarlo.
Arricciò le narici sentendo di nuovo quel tanfo mefitico
provenire dall’appartamento; durante la settimana aveva provato a svuotare e
pulire tutto lo scomparto sotto al lavandino, ma non aveva risolto nulla. Una
sera aveva addirittura preso in braccio Filo e lo aveva annusato, per capire se
potesse essere lui l’origine di quell’odore. Nemmeno lì, per fortuna, c’era la
risposta.
Attraversò a larghe falcate il corridoio, stranito dell’assenza
dell’animale al suo rientro; “Filo, tutto ok?”, chiese. Prese a dirigersi verso
il salotto, ma nel farlo inciampò nell’angolo dell’appendiabiti e una giacca
appesa crollò a terra. Dalla tasca fuoriuscì una pallina antistress – un regalo
di sua figlia – che rotolò per diversi metri fino a scomparire dietro la
cassapanca.
Antonio si inginocchiò e illuminò l'angolo buio con la
torcia del telefono per recuperare l'oggetto. “Oddio, che puzza c’è qui…”
sussurrò, prima di restare impietrito. I suoi occhi, infatti, stavano
analizzando l’oggetto che la luce fredda del flash aveva svelato. Da lì,
accucciato com’era, quell’ammasso informe sembrava qualcosa di molle, denso e
ricoperto di peli.
Dopo aver infilato un paio di guanti in lattice che
utilizzava per le pulizie con la candeggina, Antonio tirò fuori l'oggetto. Non era
chiaramente la pallina antistress. Era un corpicino, ormai leggermente
decomposto, di un animale; ciò che portò il suo cuore ad accelerare sempre di
più, tuttavia, era che non si trattava di un topo o di qualcosa di simile, no.
Il piccolo cranio, schiacciato, sembrava infatti lesionato soltanto nella parte
posteriore. Quando Antonio lo voltò, due familiari occhi gialli spalancati lo
fissarono, muti. Mollò il cadavere di Filo, che ricadde a terra in un silenzio
agghiacciante.
“Ma, allora…”, sussurrò, voltandosi lentamente.
“Antonio, Antonio…”, sentì uscire
dalla bocca felina, con la strana voce che negli ultimi giorni aveva imparato a
conoscere bene. Il cuore dell’uomo non resse a tutto quel terrore e l’ultima
cosa che riuscì ad avvertire fu un dolore improvviso al petto. Il sostituto di
Filo lo osservò morire da pochi metri di distanza, passando la lingua sulle
vibrisse.
“E quindi ti trovi bene a lavoro?”, gli chiese la ragazza
sorridendo.
“Sì, non c’è nulla di cui potrei lamentarmi, davvero”,
rispose lui con un’espressione impassibile. “Mangia, che si fredda”, aggiunse.
Annalisa assentì. Infilò la forchetta nella pasta e la portò
alla bocca. Poi aggrottò la fronte.
“Mh. C’è qualcosa di diverso nella ricetta? Cos’hai messo
nel sugo?”.
“No, davvero le solite cose, tesoro”, rispose Antonio, del
tutto pacifico.
Lui la osservò, e alla ragazza parve di scorgere un guizzo soddisfatto
nel suo sguardo. Non anomalo, forse, ma diverso dal solito. Sembrava,
soprattutto, non avesse più preoccupazioni al mondo.
“Papà sta invecchiando”, disse fra sé, cercando di reprimere
un nodo alla gola. Distolse lo sguardo dal padre e riprese a mangiare. La
pasta, pensò, aveva un retrogusto vagamente metallico.


