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11 novembre 2022

Provarci.

Correndo da lavoro in stazione controllo lo stato del treno che devo prendere. 23 minuti di ritardo. Smetto di correre. Capisco che avendo 9 minuti di tempo per non perdere la coincidenza, mi dovrò armare di pazienza e arrivare a destinazione un'ora dopo.

A meno che - sussurra la mia mente brillante - a meno che anche la coincidenza sia in ritardo, e allora avresti un incastro fortunato degno di nota. Sorridendo controllo l'app. La coincidenza è stata soppressa. Mi fermo sul posto, il telefono nella mano, lo zainetto stipato, gli stivaletti piantati sui sanpietrini.

Ci fosse una cosa, UNA SOLA, che vada dritta come voglio io. No. Fermo i pensieri che mi bloccano il problem solving. Arrivo in stazione. Vado sul binario. Un uomo si avvicina allungandomi il cellulare: "Scusa, devo cancellare questo numero, non lo voglio più". "Ma non è salvato", ribatto, "È solo nella memoria del registro chiamate". Mi guarda come se gli stessi spiegando il funzionamento di uno spettrometro di massa. Anche io mi sento non salvata e sicuramente non salva, penso, così decido di aiutarlo. "Fa niente. Aspetti". Seleziono, premo il bidone e l'esistenza di quel numero non salvato sparisce. "Fatto già?", domanda l'uomo. Annuisco. Se ne va.

Ricomincio a pensare a ciò che posso fare. Nel frattempo mi scrivono mille pazienti che hanno scelto proprio questa giornata, proprio questa fascia oraria, proprio questo momento preciso, per condividere con me richieste o problemi di ogni sorta. Le chiedo di contattare entro sera la coordinatrice delle insegnanti. Quando posso chiamarla per chiederle una cosa? Mi daresti il prossimo appuntamento? Per caso la mia bambina ha lasciato il giubbino da voi in sala d'attesa?

Ignora. Ignora. Ignora. Ignora.

L'altoparlante rimbomba nella stazione. Sta arrivando un altro treno. Segue una tratta diversa rispetto alla mia ma so che in un modo o nell'altro potrei riuscire a raggiungere la mia destinazione anche da lì. Inforco il sottopasso e salgo di volata, mentre acquisto dall'app un biglietto non più acquistabile perché è passato l'orario. Ne prendo uno di un orario successivo mentre mi preparo a dover litigare col capotreno pignolo perché oggi sta andando tutto male. No: sta andando tutto malissimo. Invece faccio le mie tre fermate senza intoppi. Scendo. Guardo il tabellone. La mia coincidenza sta arrivando, ripartirà fra venti minuti.

Ce l'ho fatta. Mi siedo, sono l'unica con una ffp2 indossata. Passa un ragazzino dell'università, anche lui porta una ffp2. Mi guarda. "È libero?", chiede. Annuisco. Ce l'ho fatta. Arriveró con soli 20 minuti di ritardo rispetto al programma iniziale.

Non è che non capisca la morale, la capisco eccome. Le cose trovano sempre modi arzigogolati per andare, nella mia vita. È solo che sono malata di una stanchezza infinita. Non avrei bisogno di dormire, avrei bisogno di sparire. Come quel numero non salvato. O non salvo, non ricordo più.

Mi lascio cullare dal ritmo del treno, assecondandone i movimenti. Sprofondo nel giubbotto messo a mo' di scialle con la musica nelle orecchie, conscia di non poter sbagliare: la mia fermata è il capolinea. Non è successo niente. Va tutto bene. La giornata è finita, non può che migliorare, mi convinco.

All'improvviso, però, un ronzio dal telefono.
"Allora, l'ha sentita la coordinatrice?".

Una cornice dalla tela imbarcata.


9 giugno 2022

8 giugno.

Da qualche tempo il livello d'ansia è aumentato. Mi sveglio alle 4 del mattino, ho nausea tutto il giorno, sento le budella contorcermisi nel ventre, quando mi lavo i denti è una lotta contro il rimettere la colazione, alla sera mi pulsa un occhio. Ieri sera e stamattina alle 4 mi pulsava anche il labbro inferiore, forse per tutto ciò che non dice o non fa, ho pensato. Sarebbe quasi da riderci sopra.

Mamma è quella persona che il 2 giugno mi scrive per dire di fare la brava e fare gli auguri alla nonna che sa che odio. Non chiama mio fratello per fare lo stesso, perché sa che lui la manderebbe a fare in culo mentre io sono quella più comprensiva. Lo sono talmente tanto che quando al telefono lei si mette a piangere dicendomi che le spiace pensarmi qui da sola, ricaccio giù la rispostaccia che mi sale alle labbra e non le dico che se è preoccupata può alzare il culo e venire qui, che non sto in Congo, sto solo a 40 km di distanza. Che rivoglio il mio completo verde del letto che lei sta usando senza aver chiesto il permesso. Che come al solito sto facendo ogni cosa da sola: cambio casa, vita, persone, luoghi e in più mi reggo in piedi. Cazzo, come mi ha insegnato lei a fare le cose da sola e senza lamentarmi, non lo insegna davvero nessuno.

E gli auguri li faccio a chi cazzo voglio io, e di sicuro non a mia nonna. Non quest'anno, non io che mi sono accorta che a 33 anni ho finito la voglia di adattarmi a tutto e a tutti. Scivolano, le cose scivolano e io non le trattengo più. Se se ne vogliono andare, allora che lo facciano. A volte basta non rispondere. A volte basta non mettere in dubbio la veridicità dei gesti; perché no, non è cattiveria: è idiozia. Ho finito di partecipare ai processi alle mie intenzioni.

Sono sempre stata troppo trasparente, una rana cristallo. Mi è sempre importato troppo. Sono stata sempre troppo seconda a qualsiasi cosa. "Sono sempre stata piena d'amore, piena da scoppiare."



1 ottobre 2021

Colpe vs rabbia.

Ho posato gli occhiali, ho tolto il laccetto nero in fondo alla treccia, ho snodato i capelli, ho levato il mollettone e ho sospirato. Poi ho avvicinato la salvietta, ho aperto la finestra per bene in modo da non permettere al vapore di ristagnare, quindi sono entrata. Sono entrata in doccia, sì, ma con il reggiseno ancora indosso.

Non appena le prime gocce NON hanno bagnato il mio petto come avrebbero dovuto, ho lanciato un'occhiataccia al getto caldo, come a domandargli se si fosse rincretinito improvvisamente. Così, per dare la colpa a qualcuno.

Lo facciamo spesso, no? Attribuire colpe a chi non ne ha, almeno direttamente. Che poi, mh, mi viene in mente quel qualcuno che dice che "colpa" è sempre un modo di dire sbagliato. E forse è davvero così.

Ad ogni modo ho tolto il reggiseno e l'ho lanciato fuori, scuotendo la testa, in un modo tutto mio di NON ammettere l'errore, quasi in reazione al fastidio procurato dall'indumento anziché all'imbarazzo che il mio essere stordita mi ha procurato.

È come quando sono arrabbiata e quindi divento triste, quasi in reazione all'autonalisi inclemente anziché al torto subito.

Una rincoglionita, appunto.

16 agosto 2021

Chi sei?

Dico tu, tu che stai leggendo: chi sei? Cosa ti porta qui? Vorrei osservarti bere un caffè, se è tua abitudine farlo.

Ad ogni modo, domani sarà una giornata lunga e faticosa, e io non voglio - almeno per ora - perdere continuità in questo mio parlare a me stessa in questo spazio protetto da occhi indiscreti. Beh, non da tutti gli occhi, ma tanto mi basta.
Perciò sono qui, intorno a mezzanotte, e ho sempre addosso quelle 4 ore scarse di sonno perché la scorsa notte alle 2:00 ero qui a pigiare tastini piangendomi addosso.

Il lago della Vacca. Sarà quella la mia meta domani. Sono fuori forma e fuori allenamento, e oggi c'è stato un discreto rovescio che mi fa prevedere fango a non finire. Non importa.

"No". Quanto può tagliare la faccia, un "no" detto al momento giusto? Peggio di una lattina passata sul bordo del labbro, ad aprirsi un sorriso in più.
"No".
D'accordo. "No" è "no". Vorrei solo vedere anche quello al di sopra di una tazzina di caffè. Serio. Austero. Inflessibile. Un "no" fatto bene.

Sono pensieri sconnessi, me ne rendo conto. Forse sono finalmente riuscita a fare quell'esercizio. Non so se è bene o male. Ma ora ho sonno.
Buonanotte, sì.



14 agosto 2021

Terzo giorno

Stanotte ho fatto uno di quei miei sogni ansiogeni.

Mi trovavo in una casa nuova che mi apparteneva per chissà quale ragione dettata dal caso: non l'avevo scelta, né arredata, né acquistata. Eppure era mia. Era nostra, a dirla tutta. E, a dirla tutta tutta, in realtà era un'abitazione che non mi è nuova, perché ha popolato un sogno simile già fatto tempo fa.

Nella scena iniziale mi trovavo in cucina, sul lavello, e provavo ad aprire il rubinetto. Al posto dell'acqua scendeva una schiuma che mi consentiva di pulire il lavandino con facilità, cosa che mi faceva quasi pensare: "Beh, niente male questo optional".

Peccato che poi mi accorgessi che l'acqua non fuoriuscita dal rubinetto in realtà lo aveva fatto altrove, allagando il piano cottura e il portastoviglie (una sezione colorata di nero che ospitava teiera e un grazioso servizio da tè, sempre nero e lucido). Una volta andata in bagno - un enorme stanzone a mo' di docce della palestra, che mi faceva pensare "Beh, almeno il bagno è grande, non mi posso assolutamente lamentare" - mi accorgevo che anche qui al posto dell'acqua scendeva solo schiuma, e maledivo chiunque avesse fatto i collegamenti delle tubature, a mio pensare errati per colpa del mio coinquilino, ovvero il mio compagno, sempre lui.

[A questo proposito, dopo Uomodimerda e Naso, credo che occorra trovare un nomignolo anche per lui. Lo chiameremo Effe]

In casa mi raggiungeva anche mia madre, la quale non mi aiutava affatto, ma si limitava a predire le peggiori sfortune sventagliando le mani in aria per scongiurarle meglio, nella peggiore rappresentazione del gufaccio che è seriamente nella vita reale.

Una volta pulito e assorbito tutto quel macello alla bell'e meglio, come se non bastasse arrivava anche un gruppo di amici (non miei) che si dirigeva deciso al lavello per sciacquare della verdura, e prima che li potessi avvertire o bloccare, la casa ritornava piena di schiuma e allagata.

Ora. So già cosa mi direbbe chi di dovere, ma va bene così. Oggi mi limito a riportare tutto questo in preda di una delle mie emicranie con aura, di cui non soffrivo da parecchio e che non mi mancavano affatto.

Ciao.



21 dicembre 2019

Capirsi.

Allora: c'è questa cosa. 
Ho comprato un pc nuovo. Sono in una casa con un WiFi e ho la possibilità di scrivere su queste pagine digitali tutto ciò che mi passa per la testa.
Il punto è che mi ritrovo spesso a fissare il cursore lampeggiare senza avere la benché minima idea di come poter far uscire quello che la mia scatola cranica contiene (metaforicamente, s'intende). Forse servirebbe trasformare la metafora in realtà. 
Con un trapano, ad esempio. Un aggeggio meccanico che riesca a creare uno sfogo per quella massa informe in sovrapressione che costituisce il mio pensiero.

Me la immagino uscire in un gigantesco blob, spiaccicarsi sul pavimento per poi rigirarsi, guardarmi incazzata e urlarmi in faccia cose terribili. Se ne uscirebbe con frasi tipo: "Che ne hai fatto di Martina?", "Perfida aguzzina, torturatrice di idee creative e usurpatrice di libertà!".
"Va bene", risponderei. "Chiedo scusa, hai ragione, signora massa blobosa e pensosa".

Insomma, un attimo. In fondo, mi domando: che cazzo voglio da me stessa?
Sono cambiata, fisicamente e mentalmente. Sto abbandonando una casa, un lavoro (dopo 9 anni), una città, uno status da donna indipendente che abita in un monolocale. Cambio modo di approcciare alla mia professione, le regole, i letti, le idee. Cambio gli specchi con cui mi osservo.
Non ho fatto l'albero di Natale, ma la neve mi ha fatta piangere, la scorsa settimana.
Sono io. Non sono più io.

Mica si può tornare indietro, da tutto questo.
Sono rana, non gambero. Salto avanti, senza voltare il collo.
Prendo da chi mi pare. Prendo da chi passa e mi tende una mano. 
Dono pezzi di cuore, non superficialissime piume. Dono trasparenza e pensiero, e cura, e amore.
Chi vuole restare, resta. Io resto.

Nessuno cambierà mai tutto questo. Nessuno mi costringerà mai a cambiare tutto questo.
Le corazze si rinnovano, si ricostruiscono, si aggiustano. 
L'anima no.

'Fanculo al cursore, stasera.
Ho vinto io.
Vinco sempre io.

Vinco.
Sempre.
Io.

8 ottobre 2019

D'istanti.

La luce in fondo al tunnel è lontana, ora.
Sa di rintocchi di voci, di un dicembre che arrossa le guance intorno a sciarpe troppo spesse.
Forse, là, ci saranno il baluginio di un'insegna, la condensa sul vetro, quattro unghie piantate nella pelle per ricordarsi d'essere vivi.

E tu, tu mi chiamerai.
Chiamerai sempre, più di ora. Mi ricorderai il mio nome in una notte tanto piccola da stare nel palmo di una mano dalle dita lunghe, da pianista.
Niente luna, niente ombre. Nessuna forma da tastare, soltanto sensazioni.
Profumi, forse. (Im)pressioni sul ventre e sul viso, dita che scavano in uno specchio che non ho mai comprato, illuminate da lampadine che penzolano insensate dall'intonaco.
Un gruppo sanguigno scritto sul petto.
Contare fino a dieci prima di premere l'invio del messaggio. Prima di premere il grilletto.

Sarà - lo sai, sí? - come tornare a casa dopo mesi. Ti diró che sapevo, sapevo in fondo che non avresti voluto perderti altrove, se non in me. Sapevo che avremmo concluso di conoscerci da troppo tempo - secoli, per Dio -, di comprometterci a vicenda in modo irreversibile. Allora, ai poli opposti d'una barra di caricamento, ci prenderemo di nuovo per i capelli, per le nuche. Ci nutriremo l'uno dell'altro, e non chiederemo perdono se non al coraggio che non abbiamo mai avuto.

Allora, forse, la smetterai.
Riconoscerai d'esserti difeso inutilmente, nel tuo fortino d'argilla fatto di labirinti concentrici, cunicoli di pensieri, origami di carta a forma d'aeroplano che ti portavano lontanissimo, ogni dannatissima volta, costringendomi a seguire l'eco del vento per ritrovare me stessa.

Allora, forse, la smetteró.
La finiró di cercare attenzioni randomiche, di rifrangere la luce, di usare immagini, mai parole. Immagini, mai parole.
Smetteró di cercare un supporto, una voce, un'ombra disegnata male dalle luci del giorno che si adagiano nella sera.

Sarà, infine, pioggia sui lucernari.
Laverà via i cattivi pensieri, i residui delle lotte più antiche, la sensazione di non essere mai abbastanza.
Ci vedrà esausti e vuoti, senza più dita, dannatissimi indici dietro cui nascondersi.

Saremo semplicemente, fortunatamente e innegabilmente noi, ma senza avverbio alcuno.
Dichiaratamente insensati, una caccia selvaggia di ranocchie salterine in cui alla fine il cacciatore si scopre preda.
Preda da sempre.

Preda per sempre.


1 marzo 2019

Disturbo Specifico di Movimento.

Ebbene.

Voglio iniziare un nuovo capitolo del blog: le autodiagnosi ad cazzum.
Lo scorso weekend è stato impegnato in uno dei corsi di formazione ai quali la mia professione mi obbliga; così, tra una slide e l'altra, mentre si parlava di dislessia, disortografia e simili, sono pacificamente giunta ad una conclusione. Io soffro di disturbo specifico di movimento.

Sì, perchè dovete sapere che io non guido.
Non nel senso che non ho la patente, no. Ho preso la patente eccome! Ero al primo anno di Università e ho passato esame teorico e pratico al primo colpo (una secchiona). Ma, ecco, le cose accadono (*espressione vaga*) e la mia patente - non so nemmeno io come - è scaduta due dicembri fa (si dice due dicembri fa? Al plurale? Bah).

Ora: io ho fatto pace con me stessa e con la mia situazione.
Nasco bambina grassa e goffa, poco incline alla misura a occhio di spazi, distanze, grandezze, pianificazioni motorie per raggiungere un obiettivo prefissato. Nella bidimensione sono un fenomeno (i miei record a Tetris ne sono testimoni), ma quando si aggiungono la terza dimensione e la cinetica, beh. Sono una frana.
Non ho mai imparato ad andare sui pattini (quelli a 4 rotelle, eh), avevo il terrore delle scale mobili e dei tapis roulant, ho fatto un incidente in bicicletta contro una macchina PARCHEGGIATA (potete ridere ma siete delle BRUTTE PERSONE). Sin da piccina faccio regolarmente incubi che vedono come protagonista me che guido un'auto e creo disastri (dai più banali incidenti stradali fino ai più truculenti: omicidi, esplosioni, tamponamenti a catena, riaperture del buco dell'ozono, compromissione degli equilibri diplomatici mondiali che nemmeno Kim Jong-un).

È una condizione che mi affligge da sempre, fa parte di me come la mia miopia mista a lieve astigmatismo. E ci ho fatto il callo. Mi sono stesa un PDP (Piano di Deambulazione Personalizzato) che prevede i seguenti mezzi compensativi: utilizzo di mezzi di trasporto pubblico, passaggi da parte di amici (nonostante mi odino di nascosto poiché sperpero il mio papabile ruolo di autista perfetta, essendo pure astemia), acquisto di abitazioni nei pressi dei luoghi lavorativi. Posso affermare di godere anche di benefit: non pago benzina, bollo, assicurazione. Non so cosa significhi fare una revisione, forare una gomma, bruciare un faro. Ho acquisito ottime abilità conversazionali quale accompagnatrice non guidante nell'abitacolo. So mimare alla perfezione la sintesi vocale di qualsiasi navigatore. Su richiesta posso anche sostituirla con una voce più calda e suadente. Posso cantare. Leggere libri ad alta voce. Recitare freddure. Anche stare zitta, per i più scontrosi.

Io mi ci sono abituata, sí. Ma la gente no.
Quando ancora la frase "veramente io non guido" non è terminata, iniziano fenomeni quali apertura esagerata e coordinata di occhi e bocca, oppure verbalizzazioni confusionarie:
- "nooo, ma perchè?"
- "ma l'autonomia è imprescindibbbile"
- "ma non ti senti in trappola?"
- "e come fai?".
- Poi ci sono gli uomini, quelli che: "Ah, se stessi con me, te la farei riprendere in mano io la macchina! Un paio di guide nel piazzale vuoto, e via andare". Simpatici.

Vedete? La verità è che bisognerebbe lasciare che ognuno fosse quello che è, permettere a ciascuno di raggiungere i propri obiettivi nel modo - pacifico e di buon senso, si intende - in cui crede. Usare tutti i compensi più adatti, spronare ciascuno a dare il meglio di sè a seconda delle sue possibilità. Lasciar perdere i vari "oltre a non essere capace, sei pure pigro, però!", i "vedrai che se provi un po', tutti i giorni, poi ci riuscirai anche tu". Soprattutto bisognerebbe evitare di svilire, di far sentire in colpa o inetti. Bisognerebbe, una volta tanto, mettere in atto il non fare, anzichè l'agire, e smetterla. Sì, smetterla.


Ad esempio, smetterla di rompere i coglioni.
Amen.


20 gennaio 2019

Riordinare. #10yearschallenge

Disclaimer: sarà lungo, se non ve ne foste accorti.

Ieri ho guardato la scrivania e le mensole a casa dei miei, e mi è venuta questa insana voglia di metterci mano.
Due ore e quattro sacchi di spazzatura dopo (due di carta e due di secco), ho sentito il bisogno di farmi una doccia.
È stato soprattutto quando ho visto la polvere e lo sporco degli anni passati scivolare giù nello scarico che mi sono sentita svuotata quasi quanto le mensole.
Piena quasi quanto i sacchi di spazzatura che straripavano.
Vedete, ho questo terribile difetto: mi sento sempre più povera rispetto al mondo.
Povera di esperienze. Povera di idee. Povera di contenuti. Povera di parole. Di gesti. Di coraggio. Di tutto.
E questo mi condiziona. Durante i confronti mi fa sentire perdente in partenza, mi blocca dal difendere me stessa perchè tanto sarebbe inutile, quella sbagliata sono io a prescindere. E - farà ben ridere ciò che sto per dire ma - sbaglio di nuovo.

Mi sono passati fra le mani dieci anni di vita (no, molti di più). E mi sono ricordata, perchè forse lo avevo dimenticato, che io ho fatto tante cose coraggiose e diverse tra loro, e nessuno me le toglierà mai dal curriculum. Nessuno. Ora si indovini: arriverà un elenco.
Sì, perchè gli elenchi sono me. O io sono loro. Ecco alcuni estratti di ieri:

1. "Grazie per tuto quello che ai fatto per me: ti voio bene". Uno dei miei pazientini dimessi.

2. Un numero di telefono nascosto: una ragazza conosciuta in seconda superiore, un'amica, che aveva deciso di scappare con il ragazzo del quale era rimasta incinta per non essere costretta ad abortire dalle suore dell'istituto in cui stava. Aveva una pelle scura, bellissima. Occhi neri, rotondi. Labbra sempre dipinte da rossetti un po' sbagliati per l'età che aveva. Spero stia bene, ora.

3. Gli appunti tradotti dall'inglese per la tesi di laurea. Lasciata a piedi con il primo progetto a giugno del 2010 dal relatore precedente (mazzata sulle gengive, sì), mi sono rimboccata le maniche e mi sono laureata con tutti gli altri a novembre dello stesso anno. Centodieci.

4. Il primo bonifico cartaceo della stanza in subaffitto presa a Milano l'ultimo anno di università. Allora non c'era la possibilità di farli online. Ricordo che avevo perso il conto delle valigie fatte e sfatte, dei magoni che mi venivano il lunedì mattina alla partenza, dei treni in ritardo, degli sfizi che non mi sono tolta per risparmiare, dei chili persi, delle pulsazioni delle mie palpebre sottoposte a stress continuo.

5. Una pagina strappata da chissà quale quaderno, ricoperta da una scrittura non mia, ma che ho riconosciuto subito. Una foto rapida, un invio su Messenger, dopo due minuti la risposta: "inconfondibilmente, unicamente, schifosamente mia (questa calligrafia)". Ma lo sapevo già, non avevo bisogno della conferma.

6. Una miniatura di Piazza dei Miracoli, un dono da parte di un mio pazientino. Un souvenir sciocco, inutile, comprato a una di quelle bancarelle turistiche, eppure per me così importante. Importante quel sapere che ero stata pensata, anche là, anche in vacanza, nonostante in terapia lui non fosse mai apparentemente contento e mi strappasse i disegni alle pareti nei momenti di rabbia. Ero nei suoi pensieri.

7. "Buon Natale da C. e N.", un bigliettino di un panda, vergato da quella calligrafia quasi da analfabeta, sicuramente in origine accompagnato a una banconota di piccolo taglio. Ti ho vista pian piano spegnerti nel letto di un hospice, durante un anno brutto in cui avrei voluto pian piano spegnermi anche io, magari al posto tuo, così. Ma di te ricorderò sempre la gioia nel trovare la polvere di meringa alla base della coppetta Algida variegata all'amarena. La tua felicità nell'affondarci dentro la paletta di plastica.

8. Fatture, locandine, appunti di corsi pagati e strapagati da me, per l'aggiornamento.

9. Fogli per la plastificatrice, pagine fotocopiate, piani di trattamento, liste, elenchi (ma va?), polaroid di amici, biglietti di auguri, braccialettini, orologi (che non metterò mai, scordatevelo), canzoni stampate, orecchie da coniglio.

10. Palle di Natale, palline antistress, rompicapo portatili, libri, cannucce, franchi svizzeri, la collezione delle 500 lire diverse, figurine di wrestling (viva la raza), penne, dvd, cd, bamboline, cellulari, fili, occhiali...vita. VITA.

Di ogni cosa ricordo l'origine, il momento, il mio stato d'animo.
Questo perché vivo tutto così intensamente da farmi ferire, lasciare solchi, modificare. Io credo che la maggior parte delle persone non intuisca il mio essere in questo modo. Penso che dall'esterno non trapeli sempre, forse ho installato un filtro come quelli di Instagram. Il tutto deve uscire con un'aura brumosa che ovatta il tutto.
Fatto sta che la gente si stupisce quando legge ciò che scrivo, quando mi sente cantare, quando mi vede irrazionalmente persa, sperduta e annichilita dalle mie stesse emozioni che a trent'anni suonati non so ancora gestire. Ma mi va bene così. Sono questo. Sono questa, per ora.

Wow. Ho scritto (pianto) tantissimo. Il post più lungo di tutto il blog.
Al 20 di gennaio forse è il caso di trovare un buon proposito per il 2019, e sarà quello di avere il coraggio di stipare le mie mensole, ancora, con qualcosa per cui fra dieci anni varrà ancora la pena di respirarsi polvere e di arrampicarsi sulla sedia.
Il proposito è quello di prendermi tutto il tempo necessario per me stessa, che da se stessi non si scappa mai.
Di darmi tregua, di valorizzarmi, di credere alle mie parole, alle mie sensazioni.
Di sorridere. Di conoscere persone, perchè io del mondo non ho mai avuto paura, guai a chi osasse affermarlo, o anche solo crederlo.

Il mio proposito sarà essere me stessa, che me stessa è bello.
È donna.
È vita.
È mondo.

Umberto Boccioni, Stati d'animo: Quelli che restano (1911)

21 novembre 2018

Colpo di coda.

No, niente.
Questo post fa parte del mio "FARE". Che uno si domanda: fare cosa? Cosa fa? Beh. Fa tante cose.

1. Fa freddo.
2. Fa niente, a me il freddo garba proprio.
3. Fa male, quando qualcuno torna e mette nell'orecchio parole dimenticate.
4. Fa incazzare, quando - porcaccialamiseria - devi finire di lavorare prima e finisci comunque dopo e pure male. Oh.
5. Fa schifo la barbabietola. Sa di erba zuccherata al sentore di acqua di bollitura del cavolfiore. Però ha un colore interessante, mi ci farò la tinta.
6. Fa strano sentire la propria voce cantare in modo potente. #nellavitamai
7. Fa piacere tornare in una casa calduccia col temporale fuori e ticchettacchettà sui lucernari.
8. Fa 4. Due più due fa quattro.
9. Fa 30. 2018 meno 1988 fa trenta. Cioè ciao.
10. Fa sospirare, tutto questo. Sospiro e penso che non ce la farò mai, dopotutto. Sono sempre la ragazzina con le gambe storte che cerca il posto esterno della fila, per escludersi un po' già da sola. Per defilarsi senza far scomodare nessuno. Per dare un'occhio al gruppo, alla massa, avere tutto sotto controllo. Per mantenere un profilo basso. Per essere notata solo dal ragazzino strambo che osserva una mosca volare e la vede posarsi sul mio banco, vicino alla mia mano. Vedrà che le mie dita tamburellano, infastidite dal tempo. Vedrà il polso attaccato alla mano, la felpa ripiegata a livello del gomito. I miei capelli un po' viola che si allungano sulle spalle. Probabilmente mi vedrà commossa per quel pensiero che improvvisamente mi passa per la mente, come una nuvola che, per prima, oscura il cielo di ottobre e non ne conosce il motivo. Mi guarderà e penserà che sono bella, nel mio modo strano e invisibile, e giusto, e prezioso. Forse un giorno troverà anche il coraggio di dirmelo. Sí, lo troverà.


11. Fa strano; farà strano, sì. Io a quel "Sei bella" non crederò davvero mai.

17 novembre 2018

FARE.

Ma, allora. Questo sarà un post di cose random dette in una sorta di flusso di coscienza. Sarà tuttavia un flusso di coscienza ordinato, che detta così suona da potente rincoglionimento, cosa che non proverò a smentire.

Innanzitutto questo è il periodo della frustrazione. Mi frustro se vedo che uno spazio libero lavorativo é stato riempito da qualcuno senza avvisarmi. Se la serata-divano subisce repentine modifiche diventando una serata-ho un impegno. Se il bambino che ho davanti continua a dire 'tole' nonostante dica una S meravigliosa in produzione isolata. Se voglio fare una buona azione e questa mi viene cassata. Se mi voglio impegnare nel credere davvero che la mia insalatina sia gustosa e soddisfacente e qualcuno dal salotto mi sussurra "se aspetti venti minuti son pronte le lasagne!".

Ovviamente la frustrazione si tramuta in un impellente bisogno di dare testate al forno. Al muro. A mia madre. Al tavolo.
Le testate cerco di non darle, quantomeno per il benessere di mia madre, se non per il mio. Allora mi butto su altro (sì, sta per arrivare un elenco con molte parentesi):

- lo shopping su Wish (le cose fanno cagare e arriveranno - forse - tra un mese, quindi: perchè?)
- il cibo (sono a dieta, stramegacazzo)
- un immotivatissimo hype per Natale (mi sento già in merda coi regali)
- la scrittura (che esce poco e male, quindi il tutto crea un circolo vizioso allucinante)
- il nervoso (che sento nello stomaco, nel collo, nelle spalle. Ah! Nel sonno - che come la scrittura risulta poco e mal..va beh, avete capito -)
- corsi online, lettura di appunti, studio a caso (rilassantissimo)
- lotte contro mulini a vento (per me o per chi mi sta intorno, ma che sono perse in partenza, potenzialmente fatali, ingarbugliate, insensate. Che rock, cazzo).

Una cosa è certa: devo fare. FARE. Qualsiasi cosa. Fare.
Se mi fermo esplodo. Se mi fermo collasso.
E io - no, no e no - non me lo posso permettere.

Ciao.

23 aprile 2017

Elenco di quindici #9

Le quindici cose che mi fanno incazzare di più:
1. Quando sono incazzata e non lo posso esprimere. Quegli episodi, per intenderci, correlati a pensieri del tipo "Peccato che non è più inverno e non indosso lo stivale col carroarmato sotto, perché mi piacerebbe sapere come starebbe bene la mia suola tatuata sulla tua fronte". Poi subentra il pacifismo, eh. Eh.
2. I ciclisti sul marciapiede (so che parlarne proprio in questi giorni..scusatemene).
3. La superficialità.
4. L'arroganza che subentra alla superficialità.
5. Le persone che mancano di rispetto all'altrui impegno.
6. La tinta labbra color lampone che nella frenesia delle 7.03 del mattino scappa da sola dalle mani e dipinge una luna sul lavandino bianco. Grazie, ora inizierò la giornata con un sorriso in più. Non il mio, quello del lavabo.
7. Le persone che dicono "Ah, queste scarpe nuove sono comodissime!". Solo i miei piedi si ribellano a una qualsivoglia calzatura riempiendosi di lividi fino all'altezza del polpaccio? Zio caro.
8. La cervicale che dona deliri allucinati e mal di testa post sbornia a chi non ha mai bevuto e fumato in quasi 29 anni di vita.
9. Fratellopaziente che riesce a dormire anche sotto i bombardamenti e poi io; io, che se alle 5.08 del mattino una particella di pulviscolo atmosferico passa troppo vicino al mio padiglione auricolare, mi sveglio. Per sempre.
10. HERE Drive+. Il navigatore Windows Phone. Fai cagare.
11. Windows Phone. Fai cagare. Mai più nella vita (che potrebbe essere un'altra idea di una lista di quindici).
12. Chi non fa il proprio lavoro con precisione e chiede agli altri di mettere una pezza. E in fretta, magari, che la relazione del paziente deve essere pronta fra un'oretta al massimo.
13. L'epistassi al cambio di stagione. Va bene una, vanno bene due, volendo anche tre, ma non sei volte al giorno, grazie.
14. Me stessa quando mi convinco che le vitamine facciano miracoli e invece, alla fine della confezione, mi sento più morta di prima.
15. I bambini che infilano due monete contemporaneamente nella macchinetta del caffè inceppandola e costringendomi all'astinenza di caffeina per tutto il resto della giornata. Vi odio.

Ciao.

19 marzo 2017

Nulla resta.

Un cerotto,
un'asola senza bottone,
sperduto in un tombino - rotolato
come il tempo del pomeriggio -
e una bambina
a cercare mattonelle
che facessero un rumore
cadendo nel secchiello.
-
Un'isola felice:
la nonna, l'ombra
di una quercia nata
da una ghianda delle Colonie Padane
raccolta in mezzo ad altalene
e protetta da fuseaux troppo stretti.
L'aria sulla faccia, l'odore
della fabbrica di glicerina dove
anni dopo
avrebbe cambiato idea
sul suo futuro.
-
Sola:
un biglietto sul comodino,
l'altro sarà già partito
- politico non so -,
e di certo stropicciato.
Guarda come si alza
con le ginocchia fracassate;
guarda, perchè nulla resta mai a lungo
di lei
tranne gocce rosse (ora marroni).
-
Rosse,
ora marroni.


9 dicembre 2016

Non volevo.

Oggi ripensavo a uno di quegli episodi che rimangono impressi nella memoria in quanto assimilabili a marchi impressi a caldo nell'emotività bambina.

Sono in gita in montagna, con la mia classe. 
Stiamo facendo una gita nei boschi e fa un freddo becco.
Si vede la neve e il sentiero, per me che non sono esattamente in forma, non è facile. Resto in coda al gruppo in compagnia del fiatone e dell'insegnante di italiano, vecchietta e malconcia pure lei.
Beh. Arriviamo a questo torrente che nonostante il freddo scorre come se nulla fosse.
Ci sono dei piccoli sassi che affiorano sulla superficie e le guide ci mostrano che dobbiamo saltellare su di loro per passare dall'altro lato.
Io mi sento subito a disagio. Non ce la farò mai, lo so.

Con questi pensieri nella mente, arriva il mio turno.
Riesco a beccare il primo sasso, poi il secondo. Al terzo passo il piede non si appoggia saldamente, scivola sulla superficie rocciosa e io, per non perdere l'equilibrio, devo infilare la gamba in acqua. Il sasso su cui ho perso la presa si inclina e si inabissa.
L'acqua del torrente è davvero gelata, ma a dire il vero non sono abituata a scandalizzarmi, così cerco di cavarmela senza far notare a nessuno che ho fatto una figuraccia. In quel momento, però, mi raggiunge la guida. Ha una brutta faccia e, a dirla tutta, non ne capisco subito il motivo perchè nessuno mi guarda mai con aria di rimprovero. Mantenere un profilo basso è il mio mantra quotidiano.

"Hai notato cosa hai fatto?" mi chiede. "Quello era l'unico passaggio che tutti gli altri potevano usare per passare sull'altra sponda! Grazie mille!".
Io non dico niente. Lo guardo dispiaciuta e desidererei tanto dirgli che non volevo. Non l'ho fatto apposta, anche se avevo previsto che sarebbe finita così. Sono imbranata, sono grassa e fatico a restare in equilibrio. Non prendo bei voti in ginnastica, non riesco a fare tanti giri del campo e non riesco a sollevare il mio corpo sulle spalliere di legno della palestra. In bicicletta ho fatto un incidente contro una macchina parcheggiata. Quando sarò grande non prenderò mai in mano una macchina, glielo giurerei seria.

La verità è che a volte non ci si rende conto di ferire gli altri in maniera tanto irreparabile. Ricordo di essere andata avanti senza più accorgermi di quanto bella fosse la neve, di quanto splendore mi circondava. 
Pensavo solo a quando sarebbe finito il percorso e a quali insormontabili ostacoli avrei incontrato dopo la curva successiva.

A volte mi ritrovo col pensiero davanti a quel torrente, di nuovo in procinto di saltellare sui sassi che affiorano e con la certezza che non riuscirò mai a toccare terra senza aver provocato danni. È strano come certi meccanismi, certi timori bambini intendo, si ripropongano nella vita adulta vestiti d'altro, eppure sembrando così famigliari. Così sempre simili a se stessi.

Non c'è mica un lieto fine per questa storia. Non per ora, almeno.
Solo la consapevolezza che per attraversare il torrente, se proprio va fatto, sarebbe meglio trovare un modo meno doloroso e più sicuro. Magari più lungo, sì. 
Ma sicuro.



29 ottobre 2016

Tesori.

Io non so cosa voglia dire essere genitori, però so di sicuro che per essere bravi ad esserlo, occorre conoscere i propri figli nelle loro essenze più pure.

Nella mia vita è qualcosa che ha a che fare con tanti aspetti.
Volermi bene, per esempio, anche se l'ultima volta che l'ho abbracciata - e maldestramente, anche - è stata quando è morta la prozia, 4 anni fa.
Apprezzarmi anche quando la sera al telefono, incazzata come sono con il mondo, le rispondo a monosillabi e se mi dice "ti voglio bene" (sempre lei, per prima), ribatto svogliata "anche io", sforzandomi di aggiungere le successive tre parole come eco alle sue, per non farla rimanere male.
È esserci anche se nel tragitto Crema - Cremona o viceversa in macchina io non spiaccichi parola eppure lui riesca a capire se son stanca, arrabbiata o triste e non mi dica nulla in aggiunta al solito "mangiamo una caramella alla menta?", perchè sa che star zitta è il mio modo di guarire.
È decidere di coccolarmi con gli sguardi anzichè con le braccia, perchè sa che odio le persone che mi toccano, mi baciano sulle guance, mi cingono le spalle o mi accarezzano, perchè sono cose che solo i bambini e l'Amore possono fare.

Non condannano, mamma e papà, il senso di inutilità che mi fa annaspare dopo un'uscita con le persone "normali", cosa che capita nella vita di tutti, prima o poi.
Intendo quelle che si baciano sulle guance, appunto, e discutono dei viaggi, dei libri, dell'attualità, del tempo balordo, delle foto belle, mentre io sono impegnata ad osservare le dita del cameriere che scorrono sui bordi dei piatti e mi chiedo come faccia a portarne quattro in equilibrio senza farli cadere. 
Le persone che snocciolano aneddoti come se non ci fosse un domani mentre io mi ripeto nella testa che devo tenere la schiena dritta e le spalle distanziate e perdo inevitabilmente il filo del discorso. 
Di solito sono le stesse che sono infastidite dai miei silenzi, le mie ancore di salvezza alla sopravvivenza. 

La verità è che passare la vita sperando mi capiscano è un sacco faticoso.
E io faccio tanti tentativi per cercare di non deludere le aspettative.
Per esempio, mi sono obbligata a crescere e ora ho un paio di stivali alti, metto vestiti con le gonne e ho un lavoro di responsabilità. 
Dentro, però - dentro, dico - sono ancora quella che si stupisce dell'approvazione degli altri tanto quanto dell'aria novembrina che taglia le guance al mattino presto. Quella che crede nel Natale magico. 
Quella che i sassolini colorati nell'orto della nonna erano pietre preziose. 
Ecco, i sassolini che, se li raccoglievo con la paletta e una volta filtrati col setaccio, finivano nel secchiello di plastica, non nel portafoglio.

Perchè era lì - lì, sì! -. 
Era lì che andavano i veri tesori.


9 agosto 2016

Learnings #13

Durante questa estate sto sperimentando un'alternanza continua di momenti in cui sembra tutto perfetto e altri in cui prenderei a mazzate la gente. 
Detto questo sono in ferie, quindi va tutto molto bene. Figuriamoci quando sarò anche in vacanza.

1. Credo che le proprie fortune non vadano sbandierate e mostrate al solo scopo di procurare invidia. Credo che vadano conservate ed osservate come piccoli gioielli preziosi, ma forse sono io che lo credo perchè durante la mia vita mi è stato insegnato a guadagnarmi le cose.
2. La gente non capisce quanto coraggio serva per indossare un costume a due pezzi.
3. A volte è necessario guardare film horror che - si sa - ti faranno cagare.
4. Ho sempre paura di disturbare la gente. Nel dubbio non faccio, non dico, non chiedo. Ed è sbagliato, perchè io non disturbo nessuno, lo so. Devo solo convincermene.
5. Quando scrivi un racconto e il finale è presente nella tua testa ma non si concretizza, è una rottura di scatole.
6. Ho una grande capacità di resistenza, e penso derivi dal fatto che so interpretare abbastanza i pensieri che si annidano dietro a quei comportamenti che farebbero incazzare pure il Dalai Lama.



7. Ho sonno ma non riesco a dormire.
8. Se passo un giorno al fiume col costume a due pezzi, poi ne passerò altri tre come minimo a grattarmi le scottature nonostante avessi la crema. È un'ingiustizia.
9. I gatti sono animali notturni e, quando ne hanno la possibilità, scappano dal balcone e non si sa dove vadano. Bisogna farsene una ragione, oppure ti ammazzeranno.
10. Ci sono menti affini. Punto.
11. Se l'acqua mi arriva al seno, anche se tocco e non sono in pericolo, io SO di poter morire. Lo so.
12. Concludo. I frullati di pesca con latte e ghiaccio tritato sono i migliori amici della mia estate. Grazie Magic Bullet tarocco. Grazie.


30 aprile 2016

Pillole di logo (33)

Da quando ha iniziato il suo percorso terapeutico gli obiettivi logopedici raggiunti sono stati pochi. Tuttavia, quelli personali, comportamentali, umani - mi dico - sono stati immensi.
Non lo vedo sorridere come fa ultimamente da mai. E se il mio contributo rispetto a questo progresso si situasse attorno allo 0,001% penso che sarebbe comunque un qualcosa di cui potermi ritenere soddisfatta.

Resta il fatto che lui è un bambino capace di distrarsi in una stanza vuota e bianca, magari osservando il pulviscolo atmosferico raggiunto da un fugace raggio di sole. Che, peraltro, in questa giornata che sa di autunno non c'è manco per sbaglio.
Stiamo lavorando su lettura e comprensione di frasi brevi brevi. Ma molto brevi, se non si fosse inteso. In pratica lui deve leggere e, una volta compreso il concetto, lo deve rappresentare con un disegno. 
Lui diventerà un fumettista da grande. Io lo penso davvero.

Arranca sulle parole che gli ho scritto in stampato maiuscolo.
- "CI..no..CHI E DO..SSSS CUUU SA..A..LA..MAMMA!" - dice.
- Bravo! "Chiedo scusa alla mamma". Dai, prova a disegnare nel rettangolo sotto -.
Vedo che si ferma a pensare, e forse si perde nel suo rimuginare infinito.
- Allora!! Oggi ci stiamo perdendo in un bicchiere d'acquaaaa! - gli dico scuotendo la mia bottiglietta di plastica vicino all'orecchio. Lui si mette a ridere, poi prende la matita e si mette a tracciare il disegno.

Inizio a compilare la cartella di oggi e poi rialzo gli occhi. Quando lo faccio, sbuffo con disappunto.
- Ma dovevi disegnare "Chiedo scusa alla mamma"! Cosa sarebbe questo bambino con la testa pasticciata? Se stai disegnando non ti devi distrarre e fare gli scarabocchi..era un bel disegno, giusto! Mi spieghi? - dico con durezza, mentre afferro la gomma.
Lui osserva il foglio mogio mogio.
- E va bene, scusami. Era un bimbo che voleva prendere i biscotti in alto, ma ha fatto cadere la scatola e gli è finita in testa e è tutto sporco, vedi? E allora vuole chiedere scusa alla mamma perchè non si fa..non si fa vedi? E va bene, e va bene scusa..dammi la gomma -.
E sono io ora che mi sento sporca. Non in testa ma dentro. Dentro. 
E mi viene voglia di piangere.

- No, sai? È una storia meravigliosa, quella che hai inventato. È bellissima e giusta. Non c'è mica bisogno della gomma, stai facendo bene. Continua, per piacere - dico a bassa voce, piena di vergogna. Aggiunge una mamma a braccia conserte e continua come se non gli avessi fatto nessun torto, perchè i bambini sono così. Puri.
O forse perchè sanno che gli adulti sono stupidi.
- È così perchè è arrabbiata - mi dice drammatizzando la scena, tutto divertito.

Bene, penso. È proprio successo, e io non me ne sono accorta.
Devo essere diventata grande, tutto d'un colpo.

È tanto triste.


18 aprile 2016

La fiera di San Pietro.

Ricordo una sera di quando ero piccola in cui desideravo a tutti i costi andare alla fiera in città.
Solo che in quel periodo - quando ancora la Tamoil non era diventata il mostro da rinchiudere e il mio papà ci lavorava ancora - c'erano sempre manutenzioni da fare nella raffineria, e lui tornava sempre ad orari improbabili.
La mamma mi disse che non poteva assicurarmi che papà sarebbe tornato in tempo per poter fare un giro sulle giostre.

Così mi misi sulla poltrona davanti alla tele, nella mia vecchia casa, e affondai la faccia nel tessuto del bracciolo. Non vedevo niente, solo nero.
E - non so per quale assurda ragione - mi convinsi che se avessi pensato a papà che in quell'istante usciva dalla raffineria, si dirigeva in macchina, accendeva il motore eccetera..beh: lui sarebbe tornato in tempo. O meglio: sapevo che l'avrei visto comparire nell'esatto istante in cui lo avrei immaginato abbassare la maniglia della porta di casa.
Ricordo di essere stata meticolosa, quella volta. Vidi le strade, calcolai i tempi di percorrenza, i semafori che l'avrebbero visto imprecare, la cenere della sua Marlboro che sarebbe caduta dal finestrino abbassato di due dita esatte.

Non so dire come, ma la magia funzionò.
Ebbi il tempo di immaginarlo salire le scale e bussare poichè la mamma aveva chiuso a chiave l'ingresso. Poi lui entrò davvero in casa. Alzai la testa dal bracciolo e mi sentii così felice e potente che per quell'istante mi dissi che davvero bastava credere a qualcosa, per farla succedere. Fu una serata meravigliosa, e tutto sapeva di estate che stava per iniziare, pantaloncini corti e caramelle.

Ci sono dei momenti, ora, in cui mi sembra di aver esaurito tutta la mia magia. Affondo la faccia nel cuscino, di notte, ma quello che ottengo è una sensazione di soffocamento. Forse è soltanto che non so che cosa immaginarmi; forse è che il futuro pare una massa globosa e astratta, che quello che voglio non è più così netto e definito, che ciò che resta della raffineria è ipoacusia, articolazioni andate e un deposito vuoto, che alla fiera non vado più da anni, le giostre le odio e la folla mi mette ansia. Forse è che dovrei ancora desiderare cose piccole, semplici, sempliciotte.

Qualcosa del tipo: andiamo a prendere i trasferelli e riempiamo le pagine dell'agenda? Nel frattempo succhiamo un lecca lecca alla cocacola, che se stiamo attenti e non ci facciamo prendere dalla foga, la cicca nascosta sotto rimane integra da masticare. Chi ce la fa vince il primo giro sull'altalena. 
Con l'altalena si può arrivare vicino al cielo, e - se qualcuno ci spinge poi - ancora più in alto, fino a toccare le nuvole, le stelle. In men che non si dica si può annusare lo spazio infinito, per tornare infine indietro ma diversi, sì, diversi da ora. 

Più belli, più puliti.

Più pieni.
Aldo Angelo Cortina _ Fiera di paese
È morto quando io sono nata. Peccato.

13 marzo 2016

Nè qui, nè là. La fiera degli accenti.

Immaginare una figura umana - o forse due, famigliari, -

camminare negli scorci digitali ricercati a caso,

fiutando colori e temperature miti, complice il negozio fotografico.

Nella speranza di una fuga, ancora lontana,

dall'oggi e dallo ieri che ancora imperversa, ciclico,

e spinge gli ingranaggi nella carne e pesa. Pesa. Ritorna.



Ritorna e pesa, in cucina, un etto di farina

- nella torta c'era un insetto - ed è così che penso

che nelle buone cose c'è sempre imperfezione.

Nei buoni intenti un po' di cattiveria,

che se anche canto fuori,

dentro taccio.



E allora essere qui o là - in mezzo ai photoshop -

non può far differenza.

La fa la testa. Il blu del cielo come contrasto.

I sandali ai piedi e la saliva che scende senza dolore in gola.

Fare l'amore liberi. Non per liberarsi.

Essere liberi. Non liberarsi.


5 marzo 2016

Learnings #11

1. Solo perchè amo qualcosa, non significa che quel qualcosa non sia in grado di uccidermi. Tipo il mio lavoro.
2. Ogni tanto sento la necessità impellente di abbattere quel recinto di buon senso e gentilezza che contraddistingue il quieto vivere e far capire a certa gente quanto mi faccia schifo. Con eleganza.
3. Odio la pioggia, se ci devo camminare sotto.
4. Provo istinti violenti, a volte.
5. Un mio "no" può avere milleduecento ragioni per esserci, ma alla gente non sempre frega qualcosa di conoscerle o intuirle. Un "no" è un "no".
6. Io non devo spiegazioni a nessuno.
7. La Nutella è buona. Ogni tanto.
8. Non sfogare gli istinti violenti fa venire il cagotto e il raffreddore.
9. Non importa con quante energie io spieghi qualcosa a qualcuno. Chi non vuol capire non capisce.
10. Vorrei che impedissero ai non nativi digitali ultracinquantenni il libero accesso a personal computer o smartphone. Soprattutto se hanno dei figli.
11. In alternativa proporrei una pensione d'accompagnamento ai figli di non nativi digitali ultracinquantenni che accedono all'utilizzo di PC e smartphone.
12. Cosa succede se mi si scarica la fantasia?
13. Viaggiare fa venire la voglia di viaggiare. Anche quando non si può.
14. Sugli uomini non si può contare.
15. La gente non dovrebbe litigare oltre le 20 della sera, dopo una giornata di lavoro, il venerdì che si porta addosso il peso della settimana.
16. In certi periodi i casi sono due: o non si dorme, oppure si dorme e si sogna male.
17. Voglio nascondere la testa nella sabbia e uscire fuori ad agosto.

Ciao a tutti.


Grossa testa, piccole braccia.
Love u.