21 dicembre 2019

Capirsi.

Allora: c'è questa cosa. 
Ho comprato un pc nuovo. Sono in una casa con un WiFi e ho la possibilità di scrivere su queste pagine digitali tutto ciò che mi passa per la testa.
Il punto è che mi ritrovo spesso a fissare il cursore lampeggiare senza avere la benché minima idea di come poter far uscire quello che la mia scatola cranica contiene (metaforicamente, s'intende). Forse servirebbe trasformare la metafora in realtà. 
Con un trapano, ad esempio. Un aggeggio meccanico che riesca a creare uno sfogo per quella massa informe in sovrapressione che costituisce il mio pensiero.

Me la immagino uscire in un gigantesco blob, spiaccicarsi sul pavimento per poi rigirarsi, guardarmi incazzata e urlarmi in faccia cose terribili. Se ne uscirebbe con frasi tipo: "Che ne hai fatto di Martina?", "Perfida aguzzina, torturatrice di idee creative e usurpatrice di libertà!".
"Va bene", risponderei. "Chiedo scusa, hai ragione, signora massa blobosa e pensosa".

Insomma, un attimo. In fondo, mi domando: che cazzo voglio da me stessa?
Sono cambiata, fisicamente e mentalmente. Sto abbandonando una casa, un lavoro (dopo 9 anni), una città, uno status da donna indipendente che abita in un monolocale. Cambio modo di approcciare alla mia professione, le regole, i letti, le idee. Cambio gli specchi con cui mi osservo.
Non ho fatto l'albero di Natale, ma la neve mi ha fatta piangere, la scorsa settimana.
Sono io. Non sono più io.

Mica si può tornare indietro, da tutto questo.
Sono rana, non gambero. Salto avanti, senza voltare il collo.
Prendo da chi mi pare. Prendo da chi passa e mi tende una mano. 
Dono pezzi di cuore, non superficialissime piume. Dono trasparenza e pensiero, e cura, e amore.
Chi vuole restare, resta. Io resto.

Nessuno cambierà mai tutto questo. Nessuno mi costringerà mai a cambiare tutto questo.
Le corazze si rinnovano, si ricostruiscono, si aggiustano. 
L'anima no.

'Fanculo al cursore, stasera.
Ho vinto io.
Vinco sempre io.

Vinco.
Sempre.
Io.

8 ottobre 2019

D'istanti.

La luce in fondo al tunnel è lontana, ora.
Sa di rintocchi di voci, di un dicembre che arrossa le guance intorno a sciarpe troppo spesse.
Forse, là, ci saranno il baluginio di un'insegna, la condensa sul vetro, quattro unghie piantate nella pelle per ricordarsi d'essere vivi.

E tu, tu mi chiamerai.
Chiamerai sempre, più di ora. Mi ricorderai il mio nome in una notte tanto piccola da stare nel palmo di una mano dalle dita lunghe, da pianista.
Niente luna, niente ombre. Nessuna forma da tastare, soltanto sensazioni.
Profumi, forse. (Im)pressioni sul ventre e sul viso, dita che scavano in uno specchio che non ho mai comprato, illuminate da lampadine che penzolano insensate dall'intonaco.
Un gruppo sanguigno scritto sul petto.
Contare fino a dieci prima di premere l'invio del messaggio. Prima di premere il grilletto.

Sarà - lo sai, sí? - come tornare a casa dopo mesi. Ti diró che sapevo, sapevo in fondo che non avresti voluto perderti altrove, se non in me. Sapevo che avremmo concluso di conoscerci da troppo tempo - secoli, per Dio -, di comprometterci a vicenda in modo irreversibile. Allora, ai poli opposti d'una barra di caricamento, ci prenderemo di nuovo per i capelli, per le nuche. Ci nutriremo l'uno dell'altro, e non chiederemo perdono se non al coraggio che non abbiamo mai avuto.

Allora, forse, la smetterai.
Riconoscerai d'esserti difeso inutilmente, nel tuo fortino d'argilla fatto di labirinti concentrici, cunicoli di pensieri, origami di carta a forma d'aeroplano che ti portavano lontanissimo, ogni dannatissima volta, costringendomi a seguire l'eco del vento per ritrovare me stessa.

Allora, forse, la smetteró.
La finiró di cercare attenzioni randomiche, di rifrangere la luce, di usare immagini, mai parole. Immagini, mai parole.
Smetteró di cercare un supporto, una voce, un'ombra disegnata male dalle luci del giorno che si adagiano nella sera.

Sarà, infine, pioggia sui lucernari.
Laverà via i cattivi pensieri, i residui delle lotte più antiche, la sensazione di non essere mai abbastanza.
Ci vedrà esausti e vuoti, senza più dita, dannatissimi indici dietro cui nascondersi.

Saremo semplicemente, fortunatamente e innegabilmente noi, ma senza avverbio alcuno.
Dichiaratamente insensati, una caccia selvaggia di ranocchie salterine in cui alla fine il cacciatore si scopre preda.
Preda da sempre.

Preda per sempre.


13 aprile 2019

Niente di speciale.

Negli ultimi tempi ho scoperto che le emozioni sanno - tra le altre cose - essere effimere.
Oggi ci sono - forti, chiare! - e domani, anche solo per un alito di vento, non ci sono più.

Ho riflettuto sul mio essere profondamente e inspiegabilmente emozione; su quanto, quindi, potrei essere effimera anche io stessa.
Il dolore provato in un angolo, nascosto da tutto e da tutti, allora, non ha assolutamente un senso.
Non viene compreso.
Risulta invisibile, agli occhi dei più.

Come si sente quel legno che si consuma in autonomia, senza alcuna possibilità di dare luce, calore, sostentamento a qualcuno?
Io lo so. Si sente inutile. Stupido.

È tutto.

Ho deciso di allontanarmi dal mio angolino.
Di cantare, anziché carbonizzarmi in una teca di vetro.
Di non badare nemmeno io alle conseguenze che il mio battito d'ali potrebbe provocare a chilometri di distanza.
Ad anime di distanza.
A cuori di distanza.


1 marzo 2019

Disturbo Specifico di Movimento.

Ebbene.

Voglio iniziare un nuovo capitolo del blog: le autodiagnosi ad cazzum.
Lo scorso weekend è stato impegnato in uno dei corsi di formazione ai quali la mia professione mi obbliga; così, tra una slide e l'altra, mentre si parlava di dislessia, disortografia e simili, sono pacificamente giunta ad una conclusione. Io soffro di disturbo specifico di movimento.

Sì, perchè dovete sapere che io non guido.
Non nel senso che non ho la patente, no. Ho preso la patente eccome! Ero al primo anno di Università e ho passato esame teorico e pratico al primo colpo (una secchiona). Ma, ecco, le cose accadono (*espressione vaga*) e la mia patente - non so nemmeno io come - è scaduta due dicembri fa (si dice due dicembri fa? Al plurale? Bah).

Ora: io ho fatto pace con me stessa e con la mia situazione.
Nasco bambina grassa e goffa, poco incline alla misura a occhio di spazi, distanze, grandezze, pianificazioni motorie per raggiungere un obiettivo prefissato. Nella bidimensione sono un fenomeno (i miei record a Tetris ne sono testimoni), ma quando si aggiungono la terza dimensione e la cinetica, beh. Sono una frana.
Non ho mai imparato ad andare sui pattini (quelli a 4 rotelle, eh), avevo il terrore delle scale mobili e dei tapis roulant, ho fatto un incidente in bicicletta contro una macchina PARCHEGGIATA (potete ridere ma siete delle BRUTTE PERSONE). Sin da piccina faccio regolarmente incubi che vedono come protagonista me che guido un'auto e creo disastri (dai più banali incidenti stradali fino ai più truculenti: omicidi, esplosioni, tamponamenti a catena, riaperture del buco dell'ozono, compromissione degli equilibri diplomatici mondiali che nemmeno Kim Jong-un).

È una condizione che mi affligge da sempre, fa parte di me come la mia miopia mista a lieve astigmatismo. E ci ho fatto il callo. Mi sono stesa un PDP (Piano di Deambulazione Personalizzato) che prevede i seguenti mezzi compensativi: utilizzo di mezzi di trasporto pubblico, passaggi da parte di amici (nonostante mi odino di nascosto poiché sperpero il mio papabile ruolo di autista perfetta, essendo pure astemia), acquisto di abitazioni nei pressi dei luoghi lavorativi. Posso affermare di godere anche di benefit: non pago benzina, bollo, assicurazione. Non so cosa significhi fare una revisione, forare una gomma, bruciare un faro. Ho acquisito ottime abilità conversazionali quale accompagnatrice non guidante nell'abitacolo. So mimare alla perfezione la sintesi vocale di qualsiasi navigatore. Su richiesta posso anche sostituirla con una voce più calda e suadente. Posso cantare. Leggere libri ad alta voce. Recitare freddure. Anche stare zitta, per i più scontrosi.

Io mi ci sono abituata, sí. Ma la gente no.
Quando ancora la frase "veramente io non guido" non è terminata, iniziano fenomeni quali apertura esagerata e coordinata di occhi e bocca, oppure verbalizzazioni confusionarie:
- "nooo, ma perchè?"
- "ma l'autonomia è imprescindibbbile"
- "ma non ti senti in trappola?"
- "e come fai?".
- Poi ci sono gli uomini, quelli che: "Ah, se stessi con me, te la farei riprendere in mano io la macchina! Un paio di guide nel piazzale vuoto, e via andare". Simpatici.

Vedete? La verità è che bisognerebbe lasciare che ognuno fosse quello che è, permettere a ciascuno di raggiungere i propri obiettivi nel modo - pacifico e di buon senso, si intende - in cui crede. Usare tutti i compensi più adatti, spronare ciascuno a dare il meglio di sè a seconda delle sue possibilità. Lasciar perdere i vari "oltre a non essere capace, sei pure pigro, però!", i "vedrai che se provi un po', tutti i giorni, poi ci riuscirai anche tu". Soprattutto bisognerebbe evitare di svilire, di far sentire in colpa o inetti. Bisognerebbe, una volta tanto, mettere in atto il non fare, anzichè l'agire, e smetterla. Sì, smetterla.


Ad esempio, smetterla di rompere i coglioni.
Amen.


20 gennaio 2019

Riordinare. #10yearschallenge

Disclaimer: sarà lungo, se non ve ne foste accorti.

Ieri ho guardato la scrivania e le mensole a casa dei miei, e mi è venuta questa insana voglia di metterci mano.
Due ore e quattro sacchi di spazzatura dopo (due di carta e due di secco), ho sentito il bisogno di farmi una doccia.
È stato soprattutto quando ho visto la polvere e lo sporco degli anni passati scivolare giù nello scarico che mi sono sentita svuotata quasi quanto le mensole.
Piena quasi quanto i sacchi di spazzatura che straripavano.
Vedete, ho questo terribile difetto: mi sento sempre più povera rispetto al mondo.
Povera di esperienze. Povera di idee. Povera di contenuti. Povera di parole. Di gesti. Di coraggio. Di tutto.
E questo mi condiziona. Durante i confronti mi fa sentire perdente in partenza, mi blocca dal difendere me stessa perchè tanto sarebbe inutile, quella sbagliata sono io a prescindere. E - farà ben ridere ciò che sto per dire ma - sbaglio di nuovo.

Mi sono passati fra le mani dieci anni di vita (no, molti di più). E mi sono ricordata, perchè forse lo avevo dimenticato, che io ho fatto tante cose coraggiose e diverse tra loro, e nessuno me le toglierà mai dal curriculum. Nessuno. Ora si indovini: arriverà un elenco.
Sì, perchè gli elenchi sono me. O io sono loro. Ecco alcuni estratti di ieri:

1. "Grazie per tuto quello che ai fatto per me: ti voio bene". Uno dei miei pazientini dimessi.

2. Un numero di telefono nascosto: una ragazza conosciuta in seconda superiore, un'amica, che aveva deciso di scappare con il ragazzo del quale era rimasta incinta per non essere costretta ad abortire dalle suore dell'istituto in cui stava. Aveva una pelle scura, bellissima. Occhi neri, rotondi. Labbra sempre dipinte da rossetti un po' sbagliati per l'età che aveva. Spero stia bene, ora.

3. Gli appunti tradotti dall'inglese per la tesi di laurea. Lasciata a piedi con il primo progetto a giugno del 2010 dal relatore precedente (mazzata sulle gengive, sì), mi sono rimboccata le maniche e mi sono laureata con tutti gli altri a novembre dello stesso anno. Centodieci.

4. Il primo bonifico cartaceo della stanza in subaffitto presa a Milano l'ultimo anno di università. Allora non c'era la possibilità di farli online. Ricordo che avevo perso il conto delle valigie fatte e sfatte, dei magoni che mi venivano il lunedì mattina alla partenza, dei treni in ritardo, degli sfizi che non mi sono tolta per risparmiare, dei chili persi, delle pulsazioni delle mie palpebre sottoposte a stress continuo.

5. Una pagina strappata da chissà quale quaderno, ricoperta da una scrittura non mia, ma che ho riconosciuto subito. Una foto rapida, un invio su Messenger, dopo due minuti la risposta: "inconfondibilmente, unicamente, schifosamente mia (questa calligrafia)". Ma lo sapevo già, non avevo bisogno della conferma.

6. Una miniatura di Piazza dei Miracoli, un dono da parte di un mio pazientino. Un souvenir sciocco, inutile, comprato a una di quelle bancarelle turistiche, eppure per me così importante. Importante quel sapere che ero stata pensata, anche là, anche in vacanza, nonostante in terapia lui non fosse mai apparentemente contento e mi strappasse i disegni alle pareti nei momenti di rabbia. Ero nei suoi pensieri.

7. "Buon Natale da C. e N.", un bigliettino di un panda, vergato da quella calligrafia quasi da analfabeta, sicuramente in origine accompagnato a una banconota di piccolo taglio. Ti ho vista pian piano spegnerti nel letto di un hospice, durante un anno brutto in cui avrei voluto pian piano spegnermi anche io, magari al posto tuo, così. Ma di te ricorderò sempre la gioia nel trovare la polvere di meringa alla base della coppetta Algida variegata all'amarena. La tua felicità nell'affondarci dentro la paletta di plastica.

8. Fatture, locandine, appunti di corsi pagati e strapagati da me, per l'aggiornamento.

9. Fogli per la plastificatrice, pagine fotocopiate, piani di trattamento, liste, elenchi (ma va?), polaroid di amici, biglietti di auguri, braccialettini, orologi (che non metterò mai, scordatevelo), canzoni stampate, orecchie da coniglio.

10. Palle di Natale, palline antistress, rompicapo portatili, libri, cannucce, franchi svizzeri, la collezione delle 500 lire diverse, figurine di wrestling (viva la raza), penne, dvd, cd, bamboline, cellulari, fili, occhiali...vita. VITA.

Di ogni cosa ricordo l'origine, il momento, il mio stato d'animo.
Questo perché vivo tutto così intensamente da farmi ferire, lasciare solchi, modificare. Io credo che la maggior parte delle persone non intuisca il mio essere in questo modo. Penso che dall'esterno non trapeli sempre, forse ho installato un filtro come quelli di Instagram. Il tutto deve uscire con un'aura brumosa che ovatta il tutto.
Fatto sta che la gente si stupisce quando legge ciò che scrivo, quando mi sente cantare, quando mi vede irrazionalmente persa, sperduta e annichilita dalle mie stesse emozioni che a trent'anni suonati non so ancora gestire. Ma mi va bene così. Sono questo. Sono questa, per ora.

Wow. Ho scritto (pianto) tantissimo. Il post più lungo di tutto il blog.
Al 20 di gennaio forse è il caso di trovare un buon proposito per il 2019, e sarà quello di avere il coraggio di stipare le mie mensole, ancora, con qualcosa per cui fra dieci anni varrà ancora la pena di respirarsi polvere e di arrampicarsi sulla sedia.
Il proposito è quello di prendermi tutto il tempo necessario per me stessa, che da se stessi non si scappa mai.
Di darmi tregua, di valorizzarmi, di credere alle mie parole, alle mie sensazioni.
Di sorridere. Di conoscere persone, perchè io del mondo non ho mai avuto paura, guai a chi osasse affermarlo, o anche solo crederlo.

Il mio proposito sarà essere me stessa, che me stessa è bello.
È donna.
È vita.
È mondo.

Umberto Boccioni, Stati d'animo: Quelli che restano (1911)