Ero calma mentre parlavo con V., il mio psicologo, stamattina. Ero appoggiata allo schienale della sedia e avevo le gambe incrociate, cosa per cui mi avrebbe ripresa, se solo lo avesse intuito. Ma lo schermo mi inquadra dal petto in su, di solito.
Mi ha sentita raccontare tante cose, poi ad un certo punto ha chiesto se avessi mai giocato a nascondino, da piccola, perché a volte è come quando batti la mano su "tana libera tutti". Ci sono posti sicuri, posti ai quali sappiamo di appartenere; tane, appunto.
Possederne uno (o più di uno) non è scontato. C'è chi non si sente a casa in nessun posto. Mai.
Quindi sapere che c'è un luogo dove siamo liberi di tornare e che ci permetterà di sentirci bene è una fortuna. Sapere che ci sono le nostre persone, lì, è una fortuna. Poterci riparare, salvare, riposare, fermare lì, è una fortuna.
Indipendentemente dal fatto che V. mette le cose sempre in un modo in cui non si può non essere concordi con lui, stavolta (come se le altre volte non finisse mai così) ho anche pianto molto. È un po' come aver girato pagina e cambiato capitolo, e mi fa strano.
Eppure quella tana lì non è stata coperta affatto dalla cellulosa, perché è uscita dal libro e mi si è posizionata dentro.
E fa bene.
Fa bene saperlo.
Sentirlo.