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9 aprile 2022

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Voltarmi, distratta,

e sorpresa:

mai, così,


mai 


ha saputo splendere 

l'abisso.











12 settembre 2021

A rovescio.

Questa mattina ho notato che quando scrivo qualcosa in versi (qualcosa di assolutamente mai definibile poesia, si intende), tendenzialmente lo scrivo a rovescio.

Parto con un verso, premo invio, riporto il cursore indietro e riempio gli spazi antecedenti.

Non capita così con la prosa. Con la prosa parto, parto per arrivare nemmeno so dove (ecco perché non sono una buona scrittrice) ma seguo l'ordine consueto.

Vedermi scrivere "a culo in su", come si dice dalle mie parti, mi fa immalinconire un po', se devo essere sincera. Perché è proprio come spesso mi sento. Al contrario. A rovescio. Una maglietta con etichette e cuciture all'esterno.

Sbagliata, se vogliamo generalizzare le cose.

L'occasione è stata questa:


DIFESA

A base fredda
La pelle incisa 
                              di cicatrici

(Tu vedi, io sento)

Bolla di sapone smerigliata.



Leggetela come credete. Dritta o al rovescio, fate voi.

1 settembre 2021

8 ottobre 2019

D'istanti.

La luce in fondo al tunnel è lontana, ora.
Sa di rintocchi di voci, di un dicembre che arrossa le guance intorno a sciarpe troppo spesse.
Forse, là, ci saranno il baluginio di un'insegna, la condensa sul vetro, quattro unghie piantate nella pelle per ricordarsi d'essere vivi.

E tu, tu mi chiamerai.
Chiamerai sempre, più di ora. Mi ricorderai il mio nome in una notte tanto piccola da stare nel palmo di una mano dalle dita lunghe, da pianista.
Niente luna, niente ombre. Nessuna forma da tastare, soltanto sensazioni.
Profumi, forse. (Im)pressioni sul ventre e sul viso, dita che scavano in uno specchio che non ho mai comprato, illuminate da lampadine che penzolano insensate dall'intonaco.
Un gruppo sanguigno scritto sul petto.
Contare fino a dieci prima di premere l'invio del messaggio. Prima di premere il grilletto.

Sarà - lo sai, sí? - come tornare a casa dopo mesi. Ti diró che sapevo, sapevo in fondo che non avresti voluto perderti altrove, se non in me. Sapevo che avremmo concluso di conoscerci da troppo tempo - secoli, per Dio -, di comprometterci a vicenda in modo irreversibile. Allora, ai poli opposti d'una barra di caricamento, ci prenderemo di nuovo per i capelli, per le nuche. Ci nutriremo l'uno dell'altro, e non chiederemo perdono se non al coraggio che non abbiamo mai avuto.

Allora, forse, la smetterai.
Riconoscerai d'esserti difeso inutilmente, nel tuo fortino d'argilla fatto di labirinti concentrici, cunicoli di pensieri, origami di carta a forma d'aeroplano che ti portavano lontanissimo, ogni dannatissima volta, costringendomi a seguire l'eco del vento per ritrovare me stessa.

Allora, forse, la smetteró.
La finiró di cercare attenzioni randomiche, di rifrangere la luce, di usare immagini, mai parole. Immagini, mai parole.
Smetteró di cercare un supporto, una voce, un'ombra disegnata male dalle luci del giorno che si adagiano nella sera.

Sarà, infine, pioggia sui lucernari.
Laverà via i cattivi pensieri, i residui delle lotte più antiche, la sensazione di non essere mai abbastanza.
Ci vedrà esausti e vuoti, senza più dita, dannatissimi indici dietro cui nascondersi.

Saremo semplicemente, fortunatamente e innegabilmente noi, ma senza avverbio alcuno.
Dichiaratamente insensati, una caccia selvaggia di ranocchie salterine in cui alla fine il cacciatore si scopre preda.
Preda da sempre.

Preda per sempre.


13 novembre 2018

Camere oscure.

Attendo sempre la sera per ritrovare momenti in cui "silenzio" vuole davvero dire assenza di rumore. Solo prima di dormire, infatti, esistono attimi in cui, tentando di acchiappare un pensiero nella mia testa, proprio non ci riesco. Lì, so, anche il desiderio più complesso e irrealizzabile diventa possibile. Non servono parole per etichettarlo o per spiegarlo, solo lampi di luce per partorirlo e osservarlo.
Quello che mi resta addosso, lì nell'ombra, é una bruma di irrealtà. Una coperta per la notte, uno scudo tiepido sotto il quale ripararmi in attesa del giorno successivo.

Vorrei saper estendere quei momenti a mio piacimento. Ritrovarli la sera, sul marciapiede, gli auricolari nelle orecchie e il mondo fuori ovattato. Ridefinirli mentre sorseggio il caffè macchiato, un solo pallino di zucchero, al mattino. Farli rimbalzare nella testa al posto delle paure, delle preoccupazioni, delle ansie, degli obiettivi metodicamente stesi a mò di elenco della spesa proprio lì, dietro le rughe di espressione sulla fronte. Se solo sapessi quale bottone premere, quale percorso imboccare per manipolarli, quale formula magica pronunciare tra i denti.

Forse la chiave di tutto sta nella notte. Al buio i minuti si dilatano e diventano controllabili, quasi flessibili. Una fisarmonica il cui mantice è regolato dal flusso dei respiri.
Mi servirebbe una camera oscura portatile. Un luogo protetto dove anzichè appendere fotografie in fase di sviluppo, io possa appendere pensieri; quelli non ancora adatti per essere formulati alla luce del sole, non adatti - addirittura - per essere pensati.

E allora sì che riuscirei a far pace con me stessa. Riuscirei a darmi tregua, a trovare soluzioni, a non consumarmi sotto il peso dei problemi del mondo di cui mi faccio carico sempre.
Riuscirei addirittura a trovare altro tempo, a moltiplicarlo nelle mie mani.

Riuscirei ad essere serena.
A lasciarmi andare, forse.

A lasciare andare tutto il resto.


17 luglio 2017

Il doppio fondo della contestazione.

Sei muschio bianco sul collo,
la ferita sanguinante
che non mi farò cadendo,
rimanendo a camminare
su scarpe rovinate dalla mia
incrollabile
fede pedonale.

Sei il nero del caffè al mattino,
novanta centesimi
in centro
a marzo [deve esistere per forza],
quello che esci in piazza felice e ti dici
quant'è bello
il sole sui sanpietrini è bello.

E sei infine lenzuola pelose di notte
calda
e nascosta all'estate [che fa paura],
di code scattanti
nel parco dietro casa - non fa rumore la vita -
e la libertà
a tratti

dilaga.




19 marzo 2017

Nulla resta.

Un cerotto,
un'asola senza bottone,
sperduto in un tombino - rotolato
come il tempo del pomeriggio -
e una bambina
a cercare mattonelle
che facessero un rumore
cadendo nel secchiello.
-
Un'isola felice:
la nonna, l'ombra
di una quercia nata
da una ghianda delle Colonie Padane
raccolta in mezzo ad altalene
e protetta da fuseaux troppo stretti.
L'aria sulla faccia, l'odore
della fabbrica di glicerina dove
anni dopo
avrebbe cambiato idea
sul suo futuro.
-
Sola:
un biglietto sul comodino,
l'altro sarà già partito
- politico non so -,
e di certo stropicciato.
Guarda come si alza
con le ginocchia fracassate;
guarda, perchè nulla resta mai a lungo
di lei
tranne gocce rosse (ora marroni).
-
Rosse,
ora marroni.


9 dicembre 2016

Non volevo.

Oggi ripensavo a uno di quegli episodi che rimangono impressi nella memoria in quanto assimilabili a marchi impressi a caldo nell'emotività bambina.

Sono in gita in montagna, con la mia classe. 
Stiamo facendo una gita nei boschi e fa un freddo becco.
Si vede la neve e il sentiero, per me che non sono esattamente in forma, non è facile. Resto in coda al gruppo in compagnia del fiatone e dell'insegnante di italiano, vecchietta e malconcia pure lei.
Beh. Arriviamo a questo torrente che nonostante il freddo scorre come se nulla fosse.
Ci sono dei piccoli sassi che affiorano sulla superficie e le guide ci mostrano che dobbiamo saltellare su di loro per passare dall'altro lato.
Io mi sento subito a disagio. Non ce la farò mai, lo so.

Con questi pensieri nella mente, arriva il mio turno.
Riesco a beccare il primo sasso, poi il secondo. Al terzo passo il piede non si appoggia saldamente, scivola sulla superficie rocciosa e io, per non perdere l'equilibrio, devo infilare la gamba in acqua. Il sasso su cui ho perso la presa si inclina e si inabissa.
L'acqua del torrente è davvero gelata, ma a dire il vero non sono abituata a scandalizzarmi, così cerco di cavarmela senza far notare a nessuno che ho fatto una figuraccia. In quel momento, però, mi raggiunge la guida. Ha una brutta faccia e, a dirla tutta, non ne capisco subito il motivo perchè nessuno mi guarda mai con aria di rimprovero. Mantenere un profilo basso è il mio mantra quotidiano.

"Hai notato cosa hai fatto?" mi chiede. "Quello era l'unico passaggio che tutti gli altri potevano usare per passare sull'altra sponda! Grazie mille!".
Io non dico niente. Lo guardo dispiaciuta e desidererei tanto dirgli che non volevo. Non l'ho fatto apposta, anche se avevo previsto che sarebbe finita così. Sono imbranata, sono grassa e fatico a restare in equilibrio. Non prendo bei voti in ginnastica, non riesco a fare tanti giri del campo e non riesco a sollevare il mio corpo sulle spalliere di legno della palestra. In bicicletta ho fatto un incidente contro una macchina parcheggiata. Quando sarò grande non prenderò mai in mano una macchina, glielo giurerei seria.

La verità è che a volte non ci si rende conto di ferire gli altri in maniera tanto irreparabile. Ricordo di essere andata avanti senza più accorgermi di quanto bella fosse la neve, di quanto splendore mi circondava. 
Pensavo solo a quando sarebbe finito il percorso e a quali insormontabili ostacoli avrei incontrato dopo la curva successiva.

A volte mi ritrovo col pensiero davanti a quel torrente, di nuovo in procinto di saltellare sui sassi che affiorano e con la certezza che non riuscirò mai a toccare terra senza aver provocato danni. È strano come certi meccanismi, certi timori bambini intendo, si ripropongano nella vita adulta vestiti d'altro, eppure sembrando così famigliari. Così sempre simili a se stessi.

Non c'è mica un lieto fine per questa storia. Non per ora, almeno.
Solo la consapevolezza che per attraversare il torrente, se proprio va fatto, sarebbe meglio trovare un modo meno doloroso e più sicuro. Magari più lungo, sì. 
Ma sicuro.



18 aprile 2016

La fiera di San Pietro.

Ricordo una sera di quando ero piccola in cui desideravo a tutti i costi andare alla fiera in città.
Solo che in quel periodo - quando ancora la Tamoil non era diventata il mostro da rinchiudere e il mio papà ci lavorava ancora - c'erano sempre manutenzioni da fare nella raffineria, e lui tornava sempre ad orari improbabili.
La mamma mi disse che non poteva assicurarmi che papà sarebbe tornato in tempo per poter fare un giro sulle giostre.

Così mi misi sulla poltrona davanti alla tele, nella mia vecchia casa, e affondai la faccia nel tessuto del bracciolo. Non vedevo niente, solo nero.
E - non so per quale assurda ragione - mi convinsi che se avessi pensato a papà che in quell'istante usciva dalla raffineria, si dirigeva in macchina, accendeva il motore eccetera..beh: lui sarebbe tornato in tempo. O meglio: sapevo che l'avrei visto comparire nell'esatto istante in cui lo avrei immaginato abbassare la maniglia della porta di casa.
Ricordo di essere stata meticolosa, quella volta. Vidi le strade, calcolai i tempi di percorrenza, i semafori che l'avrebbero visto imprecare, la cenere della sua Marlboro che sarebbe caduta dal finestrino abbassato di due dita esatte.

Non so dire come, ma la magia funzionò.
Ebbi il tempo di immaginarlo salire le scale e bussare poichè la mamma aveva chiuso a chiave l'ingresso. Poi lui entrò davvero in casa. Alzai la testa dal bracciolo e mi sentii così felice e potente che per quell'istante mi dissi che davvero bastava credere a qualcosa, per farla succedere. Fu una serata meravigliosa, e tutto sapeva di estate che stava per iniziare, pantaloncini corti e caramelle.

Ci sono dei momenti, ora, in cui mi sembra di aver esaurito tutta la mia magia. Affondo la faccia nel cuscino, di notte, ma quello che ottengo è una sensazione di soffocamento. Forse è soltanto che non so che cosa immaginarmi; forse è che il futuro pare una massa globosa e astratta, che quello che voglio non è più così netto e definito, che ciò che resta della raffineria è ipoacusia, articolazioni andate e un deposito vuoto, che alla fiera non vado più da anni, le giostre le odio e la folla mi mette ansia. Forse è che dovrei ancora desiderare cose piccole, semplici, sempliciotte.

Qualcosa del tipo: andiamo a prendere i trasferelli e riempiamo le pagine dell'agenda? Nel frattempo succhiamo un lecca lecca alla cocacola, che se stiamo attenti e non ci facciamo prendere dalla foga, la cicca nascosta sotto rimane integra da masticare. Chi ce la fa vince il primo giro sull'altalena. 
Con l'altalena si può arrivare vicino al cielo, e - se qualcuno ci spinge poi - ancora più in alto, fino a toccare le nuvole, le stelle. In men che non si dica si può annusare lo spazio infinito, per tornare infine indietro ma diversi, sì, diversi da ora. 

Più belli, più puliti.

Più pieni.
Aldo Angelo Cortina _ Fiera di paese
È morto quando io sono nata. Peccato.

26 gennaio 2016

Medie.

L'altra notte ho sognato che era di nuovo il primo giorno di scuola media. La preparazione dello zaino sembrava non finire mai, io non ricordavo se le lezioni iniziassero alle 14 o alle 14.30 e mia madre non sembrava affatto intenzionata a darmi uno strappo nel caso in cui proprio non riuscissi ad arrivare in tempo.
Alle medie vere, nella realtà intendo, avevo una bellissima bicicletta bianca e rossa che usavo nei giorni primaverili per andare a scuola. Ero una ragazzina strana, però non stupida. Ero brava a scuola ma non venivo presa in giro; è qualcosa che ha sempre caratterizzato la mia vita. Era come se le persone pensassero che era meglio non sfottermi. Così, per qualche assurda ragione. O forse perchè non ho mai mancato di rispetto a nessuno.

Beh c'erano questi due ragazzini più grandi, quando ero alle medie. E a loro piaceva tanto rubare la mia bicicletta e quella di un'amica per andare in paese a comprarsi la focaccia per l'intervallo. Odiavo quel momento, quello in cui ci attendevano al cancello della scuola, si mettevano davanti alla ruota e ci costringevano a lasciar loro le bici. Odiavo loro, a dirla tutta.
Ricordo che quell'anno, alla festa della scuola, avevo ritrovato la mia bici col manubrio tutto storto, buttata così, a caso, nell'erba del cortile. E ricordo di esserci rimasta male. Sembrava, allora, qualcosa che io non avrei mai avuto il potere di cambiare, come potesse durare in eterno, quale perenne tortura di chi non ha abbastanza voce per dire "no". Come se non potessi fottermene anche io, una volta tanto, pigiare forte i pedali e asfaltare i loro testicoli, la pancia, il collo, e proseguire avanti.

Non so che fine abbiano fatto, quei due imbecilli. Non mi importa molto.
Quello che conta è che le cose si ripetono, e ormai a 27 anni dovrei essermene fatta una ragione. E invece no.

Vedo questa foto dai colori arcobaleno, e quella faccia da rasatura fresca anche se la barba non deve essere tanta. Vedo l'espressione volutamente tormentata e vedo l'assenza dei segni che ho imparato a conoscere e ad amare in silenzio. Non ci sono perchè allora non c'erano, e quel ragazzo non è l'uomo che conosco e le ferite, le esperienze, la vita ancora non ha fatto troppi giri su quella faccia. 
E dentro - la sento - c'è la stessa inerzia, precisa, con cui mi ricordo scendere dal sellino e consegnare la bici bianca e rossa trattenendola un altro po' per il manubrio. C'è la stessa modalità di lasciare andare le cose come vanno, che mica c'è da condannarlo come atteggiamento, non è affatto sbagliato. Ma è doloroso. È subdolo, è qualcosa che si infiltra e si fa sentire, persistente. È freddo, è inverno buio.

E io non lo so. Non lo so cosa c'entri la mia bicicletta bianca e rossa con l'Amore, santa pace. So solo che sarebbe meglio raccoglierla dall'erba e raddrizzarle il manubrio, perchè con quel catorcio io di strada ne voglio ancora fare un bel po'.
Oh, sì. Un bel bel po'.

6 gennaio 2016

Sole.

Alla fine il sole tornerà sempre,
dopo il nevischio, le uvette nere, i tavoli allungati.
Tornerà dopo le fughe su canali veri o dipinti,
dopo i graffi sulla porta, le ore di ozio, il sonno rubato al pomeriggio.
Tornerà e riporterà alla mente vacanze lontane,
primi tentativi di un nucleo in formazione,
di uno e uno che fa uno e non due,
perché se anche non opinabile, 
la matematica a volte si adatta alla vita.
Il sole ritornerà e soffierà nel naso profumi futuri:
ci sarà un albero, allora, e una stanza sempre in disordine
con i colori mezzi aperti e cinque opere in corso;
ci sarà un tiragraffi in un angolo,
un piano, una poesia appesa alle pareti
- a ricordo costante dei punti di partenza
come bivio al contrario, che si debiforca
(e debiforca sarà accettato dai dizionari, nell'allora) -.
E il forno sarà sempre caldo,
google maps costretto a far calcoli
e scorci nascosti si paleseranno alle nostre fotocamere.
E a volte, ci saranno volte in cui
- come spesso mi capita - mi metterò a piangere
senza un perchè. Perchè son donna,
e mi piace pensare che solo le donne sappiano intuire
quando gli angeli soffrono, e ne soffrano, di conseguenza.
Beh, piangerò. E quando mi domanderai il motivo
- e io non saprò trovarlo -
nell'allora mi dirai, sorridendo in quel tuo modo bambino,
di non preoccuparmi mai.
Che il sole torna sempre, alla fine, dirai.
Di non preoccuparmi affatto.


31 luglio 2015

A tutto.

Ottimismo, sì.
Sono ufficialmente in ferie, scrivo questo post con una nuova, fantastica tastiera bluetooth (grazie A.S.S.) e per 17 giorni nessuno mi romperà piu' le scatole.

C'è qualcos'altro. Vacanza.
Per la prima volta questa parola assume per me un significato concreto, io che da sempre sono abituata a pensare che le vacanze siano per la gente che sta bene, che ad andare via ce la fa, che non ha sacrifici da fare per arrivare alla fine del mese.
Non sono abituata ad andare in vacanza. Non ne ho mai avuto possibilità e motivazione; non mi è stato insegnato, ecco.

Quest'anno la motivazione è forte e importante, e voluta.
Quest'anno ho abbandonato le mie vesti usuali e ne ho indossate di nuove, colorate, strane. In molti sensi, davvero.
Ringrazio chi ha deciso di darmi questa possibilità. Ringrazio me stessa, per essere quella che sono. Ringrazio chi ho scelto e che mi sta accanto in ogni modo, e lo fa con pazienza e comprensione, quasi che il reciproco adattamento non sia compromesso ma immenso piacere. Ringrazio che tutto questo non mi sia fatto vivere come un peso ma come un'immensa fortuna.

Sono felice. Sorrido.
L'estate, per la prima volta, non è gabbia ma opportunità. Voglio coglierla a palmi aperti, godendone ogni secondo.
Un anno fa stava per cambiare il mio mondo, e io ancora non lo sapevo.
Non è tutto facile, non è tutto chiaro, ma io so che sarebbe bastato un nulla e tutto quello che sto vivendo sarebbe potuto non accadere.

Sono pronta a bruciarmi il naso prendendo il sole.
Ad innamorarmi di nuovi posti, nuove città, nuove facce.
A mettermi in gioco ancora e ancora e ancora.
A ricaricarmi, a rilassarmi, a ricominciare.
A fare discorsi seri e idioti, a viaggiare, a non guardare l'orologio.
Con te, sono pronta a tutto.



2 aprile 2015

Tama 'n lumagot.

Forse quella persona, tempo fa, aveva ragione.
Aveva ragione a dire che io coi poco normali ci sto meglio che coi normali.
Qui si aprivano le diatribe sul "cosa è normale e cosa no", ma se uno fa poco il sofisticato, allora, va bene e si capisce.

Passa il tempo e io continuo a non sapere come comportarmi con i normali.
Continuo a non essere in grado di starci in mezzo senza sentirmi una lumaca. Sì, una lumaca. Che se mi toccano le antenne sparisco nel guscio che - per carità - sarà anche un bel guscio, ma è pur sempre poco comunicativo.

Ringrazio i masseteri, che sono ancora in grado di digrignarsi e serrarsi per non far spuntare fuori lacrime salate, concentro tutta la tensione nei denti, nei molari, e poi scoppio a piangere perchè non ce la faccio più a mordermi. E continuo fino a tardi, quando ormai il letto mica è più tiepido, e le mie braccia da camionista non mi stringono a sufficienza il torace.

Come una lumaca.
E non so più stare con me stessa. E ingoio discorsi che si dovrebbero fare.
E vorrei sembrare normale, in grado, competente, simpatica, carina, perfetta.
E pensare che invece so impostare una CI, so stringere una mano e comunicare una disabilità intellettiva, so far stare 10 persone in 9 stanze, so insegnare la tabellina del nove con le dita, so correggere test, so soffiare il naso a qualcuno senza smoccolarmi le mani, so piangere perchè la tristezza non è solo adulta e l'ingiustizia non è nel mondo, ma è appena fuori dal pianerottolo.

Non sono mai stata in giro per il mondo, approposito. Non ho assaggiato l'acqua di mare, non fumo, non bevo, non mi drogo. Non ho preso un aereo. Lascio le chiavi di casa nella toppa, quando esco al mattino. Perdo carta d'identità e codice fiscale, la testa l'ho ancora attaccata al collo, fortuna vuole.

Come una lumaca. Io sono una lumaca.
Senza bavetta, però.

Dai, è carina.

27 gennaio 2015

Con due "ci".

È per via del fatto che quando una arriva al tetto, poi ha due alternative: o si butta giù o urla con quanto fiato ha in gola.
Non starà a guardare gli ipocriti che si fingono vittime essendo nel frattempo parte integrante - e pure subdola - del problema. Non baderà molto all'arrotondamento degli spigoli ma farà avvertire tutta la loro durezza. Non farà riferimento al fatto che le incombenze per essere tali necessiterebbero di approvazione da parte dell'individuo che le subisce, lungi lui dall'essere mulo da soma.

Non saranno questi i dettagli importanti.
Il fondamento starà invece nel disincanto, nella facilità con cui quest'una sul tetto ci sia arrivata, e non si sorprenda neppure di vedere metri e metri sotto di lei, senza nemmeno avvertire un poco di vertigine.
Il fondamento starà nell'amarezza, quella sensazione di affanno per non si sa più quale corsa, verso quale meta, con quali gambe, lo stomaco e lo spirito gonfi di cosa.
Ritratti gli artigli e abbassata la coda ad assenso, resterà soltanto una sagoma da riconoscere in fretta.
Un felino. Quello sul tetto sarà un felino, sì.

Una micia, con precisione. Una di quelle con due "ci".
Occorrerà badar bene ad avvicinarlesi con del fuoco, poichè lo scoppio sarebbe immediato e inevitabile.
Risparmiategliele, alla micia con due "ci", le scenate patetiche. I grandi, quelli veri, lo sono perchè si sentono piccoli, non perchè ergono palizzate di superiorità. Lo impara ogni giorno, entrando nell'auletta blu ed uscendovi con grandi saggi e trattati provenienti da esserini al di sotto del metro e cinquanta.
Non usate ironia, lei la padroneggia assai meglio, a tal punto da servirsene da scudo per sopravvivere negli anni, che ormai sono quattro. Non crediate che quelle siano crepe, son cicatrici.
Quelle da micia che combatte per non cedere alla paura, e mica del buio.

Che - sappiatelo - la micia, proprio lei, con occhi magici lo sa: il buio vero, quello dei mostri cattivi e delle streghe occhi di giada, non è quello della notte che spunta la luna e non si scorgono più ombre, no.

Il buio di cui aver paura è quello che viene da dentro, con rabbia e angoscia.
È il buio di cuore malato, vuoto, nero.
Solo.

21 dicembre 2014

Let it snow.

Nonna era una grande donna.
Mi ha insegnato ad ascoltare, a non giudicare mai senza sapere e nemmeno quando so, a profumare la casa di lavanda con le bombolette, a cavarmela da sola anche se non guido, che un taxi c'è sempre quando le corriere non passano e le gambe sono troppo stanche per macinare chilometri. 
Conosceva tante persone, nonna. Aveva sempre due parole per tutti e si sbatteva per gli altri. Era buona e sapeva le cose giuste da fare anche se sulla lista della spesa scriveva "candegina, prosiutto e ammorbidiente". E profumava di buono, per coinvolgermi in ciò che avrebbe potuto fare anche da sola mi dava in mano il pettine a conchiglia e mi diceva "ho qualche buco tra i boccoli dietro la testa? Riempilo tu!".
E mangiava pesche e albicocche prima di coricarsi a dormire, nel buio della cucina mentre guardavamo Don Camillo. E rideva di gusto, quando lo faceva.
Si sfregava le mani e le fedi doppie sull'anulare facevano un rumore che mi piaceva sentire. Aveva fazzoletti di tela a non finire, in ogni cassetto. Il pane che comprava lei è il più buono che io abbia mai mangiato, e ora non riesco a trovare lo stesso sapore.

Sono passati sette anni e ancora mi manca da morire, soprattutto vicino alle feste. Ha perso tante cose belle di me, cose di cui so che sarebbe orgogliosa. Avrei voluto mi vedesse diventare grande. Ma sono soddisfatta di ciò che sono, e questo mi basta per sapere che lo sarebbe anche lei.

Nonna aveva lo stesso potere e la stessa consistenza della neve. Delicata, impalpabile ma al tempo stesso concreta, mi faceva meravigliare e sorprendere come un bimbo che appiccica il naso al vetro congelato per ammirare i fiocchi. Era magica, era speciale. E mi manca tanto, un po' come la neve.


16 novembre 2014

Porto di mare: fermata Porto di mare.

Da quando ho abitato per un anno vicino alla fermata M3 "Lodi T.i.B.B" di Milano, ho scoperto che nomi delle stazioni della Metro mi affascinano.
Sarà iniziato tutto proprio perchè quel T.i.B.B. non sapevo - e non so ancora oggi - cosa volesse dire, ma indipendentemente da quello, l'idea che qualcuno abbia intitolato le tappe di una lunga marcia nella città mi suggerisce qualcosa di solenne e al tempo stesso genialmente fresco (non so se si capisca davvero).

La realtà è che credo ci si possa associare di tutto, a quei nomi. Credo che gli ideatori abbiano fatto qualcosa di meraviglioso. A loro modo, molte fermate hanno etichette evocative, potenti ecco.
Ieri, obbligata a un viaggio della speranza per un corso di formazione (pessima idea, essendo rincasata dopo le 21), riflettevo su "Porto di mare". Mi è sempre stata simpatica: era l'ultima fermata prima di Rogoredo ai tempi dell'università, e Rogoredo voleva dire "treno per tornare a casa". Mi ha sempre dato l'idea di una zona franca prima del confine da oltrepassare per essere felice. Chiamatemi scema, ma è così.

Ieri "Porto di mare" sembrava il nome più azzeccato, dato il nubifragio. Ma non solo.
Ho un po' questa sensazione, ultimamente, di essere una barchetta di carta in un mare in tempesta. Non trovo pace, ci sono venti che mi fanno sbandare di qua e di là e non mi sento sicura, perchè non ho ancore che mi fissano al fondale nè funi che mi legano al molo e che impediscano che mi perda in mare aperto. 
C'è mare ovunque, e io non so nuotare. E mi sento in pericolo, disorientata, e i venti che portano acqua salata mi graffiano la faccia. Ho la certezza che il mio "Porto di mare" sia da qualche parte qui vicino; lo sento che mi chiama, lui con il suo faro, ma il cielo nero e la burrasca mi rendono impossibile stabilire quale sia la direzione giusta da seguire.
Non ho voce perchè ho la gola malata, e mi è difficile anche chiedere aiuto e spiegarmi in queste condizioni. So che occorre farlo, però, che forse è necessario provare a parlare anche a costo di ingoiare un po' di acqua salata e sentire bruciare l'esofago.
Così non mollo. Vado avanti, perchè come so da sempre andare avanti è l'unica cosa che so fare bene davvero.

E così, nel frastuono umido di una metro che si sente solo se ci stai attento (non capita lo stesso con molte cose della vita, dico io?), una scopre che una rana salterina non è così diversa da una barchetta di carta che sussulta sulle onde. 


28 settembre 2014

Learnings #7

Quando si inizia a scrivere un post, si dovrebbero avere le idee chiare riguardo all'argomento su cui si vorrebbe scrivere.
Quando ciò non accade, e sembra che al cervello siano incollati tanti post it gialli con argomenti interessanti, allora io concludo che potrebbe essere il caso di creare un learnings nuovo.

Questo cappello introduttivo è presente solo perchè volevo avere un'occasione per scrivere "cappello introduttivo". Scusatemene.

1. Ci sono momenti in cui è giusto sedersi intorno ad un tavolo (o sopra a delle tegole ondulate che ti piastrano il culo) e parlare.
2. Ci sono momenti in cui chiedersi "e ora cosa faccio? Sono in ballo....ballo.".
3. Ci sono momenti che passano in fretta e il tempo che vola sa di sigaretta. Cit.
4. Ci sono momenti in cui prendere un treno e tornare indietro nel tempo è possibile, e spesso ti dici che avresti fatto Lingue e ora saresti da un'altra parte.
5. Ci sono momenti in cui schiacci il tasto rosso e parli e canti e senti la voglia di svuotarti come in un immenso bicchiere di vetro.
6. Ci sono momenti in cui tenti di impacchettare la paura in capitoli, uno per volta, che se te li leggo e ti piacciono e vuoi sapere come va a finire la storia non mi devi lasciare per molto tempo ancora. La sai la storia delle Mille e una notte? Ecco. Non mi abbandonare.
7. Ci sono momenti in cui parli di qualcosa anche se hai paura che a dirlo ad alta voce sembri stupido o possa scapparti dalle mani.
8. Ci sono momenti in cui le unghie più quadrate sono l'unica cosa che parrebbe avere contorni definiti, l'unico appiglio alla logica, alla razionalità.
9. Ci sono momenti in cui ti senti fiera delle tue capacità, che chiunque dica che non credi in te stessa non ti conosce abbastanza.
10. Ci sono momenti in cui pensi a chi non c'è più, a quanto abbia condizionato il tuo essere, il tuo fare, il tuo reagire.
11. Ci sono momenti in cui le occasioni vanno colte al volo, o almeno così sembra.
12. Ci sono momenti in cui ti accorgi che come al solito ti rifugi nelle frasi che iniziano nello stesso modo, una sorta di trampolino di lancio del pensiero, per non scioccare troppo chi legge.
13. Devo slegarmi da molti sovrapensieri, togliermi i fili ai polsi e vedere dove le mie mani libere mi porteranno.
14. Ho voglia di parlare. Ascoltare l'ho sempre fatto, lo faccio sempre.
15. Non ho rimpianti, sono solo affascinata di come l'affastellarsi delle vicende passate mi abbia portata qui, sempre a credere, a sperare, a VOLERE.
16. Voglio stare bene.
17. Sta cambiando qualcosa e io lo sto avvertendo. Rumore come di cose che vanno al loro posto, ma stavolta è per me.
18. Devo ringraziare. Ringraziare qualcosa, qualcuno. Grazie.

Naturalismo astratto. Mario Zampedroni.
Mi piaceva.

30 agosto 2014

Dammi tre parole.

Tre cose. Ci sono tre cose che proprio fatico a tollerare.

1. La stupidità. Da non confondere con l'ignoranza: c'è gente ignorante che mi bagna il naso e che sa tenere testa agli altri con la forza della concretezza che possiede. Mia nonna era semianalfabeta, manco aveva finito le elementari. Ma era una buona persona e sapeva il fatto suo. Aveva un orto splendido e la sua casa profumava sempre di buono. Gli stupidi sono quelli che si fermano alla superficie delle cose, che non chiedono perchè è meglio cosí, che non si interessano perchè sono troppo concentrati ad essere stupidi. Non si riesce a parlare con gli stupidi, perchè non colgono il senso celato dietro alle parole, le note tra una riga e l'altra, i doppi sensi, l'ironia. Sono noiosi e mi fanno sentire frustrata.

2. L'ingiustizia. Ne vedo tanta, soprattutto col lavoro che faccio. L'esistenza di bambini infelici dovrebbe essere illegale. Dovrebbe essere bandita dalla realtà, lasciata solo per registi o scrittori che vogliano sbizzarrirsi con la fantasia in opere tristi. Ma, a dire il vero, l'ingiustizia non c'è solo nel mio lavoro; dilaga ovunque: nella vita di tutti i giorni, nella famiglia, nella politica. Ovunque. E spesso resta impunita, cosa che è ancora più ingiusta dell'ingiustizia. Resta nascosta, resta muta. Ingiustizia è vicolo cieco, è peso sul petto, boccone incastrato in gola. È quanto di più letale ci sia per il guizzo, l'inventiva, la voglia di cambiamento: se esiste ingiustizia, spesso molti tentativi, ipotizzabili vani, non vengono nemmeno fatti. Ingiustizia è ristagno.

3. La mancanza di rispetto. Mamma e papà me li hanno inculcati forti, i miei valori. Tra tutti, sceglierei il rispetto quale più importante. Rispetto è a volte tacere, o rendere il proprio intervento il più cauto possibile, perchè a volte ci sono equilibri che un piccolo atto poco pensato potrebbe ribaltare. Rispetto è ascoltare, capire e voglia di conoscere. Rispetto è mai giudicare, se non si sa. La mancanza di rispetto mi coglie impreparata, la maggior parte delle volte. Non sono una santa, ma sono quella che sorride alla cassiera e dice "Grazie, buona giornata", e "Oh, mi scusi", e "Permesso". Il rispetto è alla base di qualsiasi rapporto, futile o importante che sia. Senza rispetto non vale la pena di costruire castelli o riorganizzare la propria esistenza.

Di questi tempi ho incontrato parecchi stupidi, ho avuto a che fare con grosse ingiustizie (personali e non) e mancanze di rispetto.
Vogliate scusarmi se non sono proprio di un umore eccelso, se non mi va molto di uscire e incontrare nuova gente da conoscere, plausibilmente molto simpatica e gentile. Penso di avere finito la mia scorta di pazienza e di menefreghismo, per ora; diciamo che sono in fase di ricarica?
In realtà mi girano parecchio i coglioni.


8 agosto 2014

Non parlare con gli sconosciuti.

Ecco: mi chiedo cosa ci spinga, a volte, a parlare con degli sconosciuti. A dare loro fiducia. Non ce la ricordiamo la mamma di quando eravamo piccoli? 
Non abbiamo interiorizzato la regola a cui non dovremmo sgarrare mai?
Roba che tipo uno accetta l'amicizia su facebook di uno dei giocatori online che fa parte della sua squadra nella piattaforma di gioco, ma non si fila di striscio (e anzi snobba pure) molti dei vecchi compagni di elementari e medie. 
Dico: singolare, no?

Mi è capitato. Probabilmente per quel vecchio fatto che è molto più facile aprirsi con chi non ti conosce da sempre, unito ad un pizzico di capacità nell'entrare in empatia con gli altri.
Quello che di certo so è che in casi come questi i più piccoli e marginali legami che in un rapporto reale non attirerebbero l'attenzione, vengono ingigantiti a dismisura. Qualcosa tipo "Ma scherzi, anche io e la mia compagnia di amici abbiamo fatto un Carnevale a tema cattivi Disney,  assurdo!", oppure "Naaaah, anche tu colazione con le Gocciole, grandissimo!!".
Cioè: ripigliamoci.

Poi no: ci sono quei casi in cui qualcosa di diverso c'è, ma non è sempre un bene coltivarlo. La strana convinzione del "che bello avere un amico che mi attende in ogni parte del mondo", mi pare troppo assimilabile a quel vecchio detto dei marinai con una puttana in ogni porto. E, tuttavia, ci si tenta sempre.
Oh, che alla fine non è poi tanto lontano dalle storie con quegli uomini improbabili, che il sistema di allarme nella testa fa scattare le sirene e urla "NOO! GUAI! GUAI IN VISTA, CASINI, NUBIFRAGI, CATASTROFI AMBIENTALI, ARMAGEDDON, APOCALISSE, BUCO NERO!". E tu lo sai, ahh se lo sai. Ma lo spegni e ti godi quel silenzio carico di elettricità statica, percorrendo un sentiero lastricato di buone intenzioni.

E poi son cazzi tuoi. 
O meglio: cazzi miei. 
A me gli sconosciuti piacciono.